Quando un’azienda italiana finisce in mani straniere scattano in automatico le grida d’allarme: «il made in Italy se ne va tutto all’estero», «perdiamo pezzi» e così via. Ma ci sono storie di società vendute oltre confine che invece potrebbero stimolare altre reazioni, non per forza negative.
Prendiamo il caso della Suba Seeds, un’impresa romagnola di Longiano (Forlì Cesena) che produce sementi ed è stata ceduta il 28 ottobre al fondo Usa Paine & Partners per una cifra vicina agli 80 milioni di euro. Questa piccola multinazionale, che vende i suoi prodotti in diversi Paesi del mondo, dagli Stati Uniti alla Cina, aveva rilevato proprio nel 2014 un’azienda americana attiva nello stesso settore, la Condor Seed Production. Ne avevamo parlato qui.
Quest’anno, invece, l’operazione non è stata in entrata ma in uscita: Quadrivio Capital, la sgr che deteneva il 52% di Suba Seeds, ha deciso di cedere la sua quota a questo fondo di private equity americano specializzato nel settore agro-alimentare, e lo stesso hanno fatto gli altri azionisti, dal presidente Augusto Suzzi (che aveva in mano il 15,36% della società), l’amministratore delegato Giuseppe Tumedei (l’11%) e gli altri manager. In sintesi, il 100% è andato dall’altra parte dell’oceano. «Anche se gli acquirenti hanno accettato che io e gli altri “vecchi” manager della società rientrassimo tra gli azionisti prendendoci complessivamente una quota del 6%», dice a EconomyUp Augusto Suzzi, che è anche il fondatore di Suba Seeds.
Ciò che rende particolare questa cessione rispetto alle altre è la vicenda che la precede. Poco prima del dicembre 2012, quando il fondo Quadrivio rilevò il 52% di Suba Seeds, il titolare decise di regalare metà dell’azienda, il 48%, a cinque dei dipendenti più fidati, quelli più pronti a guidarla come manager. Un po’ perché senza figli, un po’ per il rapporto professionale e umano che si era creato, Suzzi nominò come suoi “eredi” delle persone che lavoravano con lui senza chiedere nulla in cambio se non la garanzia di dare una continuità alla sua creatura più preziosa, la «ditta».
A una prima lettura la mossa di Suzzi sembrerebbe leggermente contraddittoria: prima regala metà azienda ai dipendenti e poi vende tutto (e così fanno i suoi collaboratori) al fondo americano. Ma l’offerta è di quelle ghiotte. «Ci hanno dato una barca di soldi – ammette Suzzi -, eravamo stati valutati circa 40 milioni, ce ne hanno dati 80: più di così non potevamo pretendere. Quando passa il treno non si può non salire». Così, da quando il titolare ha ceduto gratuitamente le quote della sua azienda ai suoi dipendenti, il valore è quasi triplicato: i manager-collaboratori di Suzzi si sono arricchiti nel giro di due-tre anni senza fare altro che il proprio lavoro in modo diligente ed efficace. Inoltre, tutti i manager-azionisti hanno scelto di investire nell’azienda acquisendo appunto il 6% complessivo e potranno continuare a dire la loro in termini decisionali.
E nulla, assicura il presidente, cambierà dal punto di vista dei livelli occupazionali. Gli oltre duecento posti di lavoro non saranno toccati. Gi impianti restano dove sono. In più, «il fondo che ci ha acquisito ha già esperienze nel nostro settore avendo acquisito in passato una società americana poi ceduta alla Monsanto: è probabile che insieme a loro possiamo crescere rapidamente, sia in termini di fatturato andando ben oltre i 70 milioni con cui abbiamo chiuso a giugno 2015, sia in termini di nuove prospettive industriali, visto che puntiamo a entrare anche nel più remunerativo mercato delle sementi professionali, quelle usate da chi produce ortaggi a livello professionale, e non solo di quelle standard, utilizzate per l’hobbistica», spiega Suzzi. «Insieme a questo fondo, arrivare in alto sarà più facile».
In prospettiva, se i calcoli del presidente di Suba Seeds sono giusti, ci saranno più ricavi e più lavoro e i dipendenti-manager lavoreranno avendo in tasca il ricavato della vendita agli americani. Certo, una buona parte della ricchezza prodotta da Suba Seeds finirà all’estero, ma non si può dire che in questa vicenda l’Italia e un pezzo del suo sistema produttivo non ci abbiano guadagnato.