Il caso

Moncler, quel che insegna la tempesta in un piumino

L’inchiesta di Report, qualunque sia la verità, rivela le ipocrisie sul finto made in Italy, la potenza dei social e la difficoltà dell’azienda di rispondere adeguatamente alla crisi. Ecco un’analisi sulle conversazioni dopo la trasmissione. E un videocommento sulla necessità di reagire in modo deciso e trasparente

Pubblicato il 04 Nov 2014

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Milena Gabanelli ha assestato un altro dei suoi colpi, preparati lavorando sul già noto ma mettendolo in bella, anzi ottima, forma narrativa. I piumini Moncler, ha sentenziato Report domenica sera, sono fatti con piume strappate ad animali vivi. E non valgono quel che costano. Apriti cielo, sui social si è scatenata subito la tempesta dell’indignazione e lunedì mattina il titolo della società in Borsa ha avuto un brutto scivolone. Comunque stiano le cose, Moncler ha sbagliato. Prima a non rispondere alle domande dei giornalisti di Report, poi a sottovalutare l’impatto del servizio, quindi a rispondere in modo formale, distaccato: “Noi ci serviamo solo da fornitori controllati”.

L’azienda ha annunciato che intraprenderà azioni legali contro Report e saranno i tribunali a dire chi ha ragione. Ma intanto sono andati in fumo circa 140 milioni di euro e la reputazione del marchio è fortemente compromessa. Sui social si è sviluppata una vera e propria tempesta, fra tanta finta ingenuità e molta indignazione di rito. Basta leggere l’etichetta per sapere che quei capi che costano centinaia se non migliaia di euro sono prodotti in Romania. Come capita per tanti manufatti che godono dell’aura del Made in Italy, soprattutto nel fashion. In ogni caso tempesta è stata. Ecco l’analisi svolta da Henry Sichel, fondatore e general manager della digital agency Caffeina che, con la sua divisione Insight, analizza l’impatto della rete per i grossi marchi, divisione che ha affrontato indagini simili molto dettagliate con riscontri anche in ambito legal al servizio di brand del calibro di Barilla e Procter&Gamble.

L’IMPATTO SOCIAL DI REPORT SU MONCLER
Su Facebook, la violentissima reazione degli utenti ha colpito in pieno la Fanpage ufficiale di Moncler, forte di più di un milione di fan, con insulti, attacchi e critiche al trattamento riservato agli animali e alla scelta di produrre all’estero. Le reazioni a ogni post del Brand sono letteralmente schizzate alle stelle, passando da una media di 30 commenti al giorno nei post di ottobre a un picco di più di 1.800 per quello pubblicato il 2 novembre. Anche su Twitter, “piazza virtuale” per eccellenza delle crisi, gli effetti sono stati esplosivi: i tweet contenenti “Moncler” sono montati da una media di poche decine al giorno durante il mese di ottobre ai più di 3.000 del 3 novembre, con frequenti richiami al boicottaggio. Gli effetti si sono sentiti anche sulle SERP di Google, che già il 2 novembre ha indicizzato un picco di risultati correlati a Moncler, pari al triplo dell’andamento normale. Il caso è ora nella sua piena fase di hype. Il buzz decrescerà gradualmente, lasciando però alle proprie spalle una coda di strascichi negativi. L’impatto subìto da Moncler è serio e profondo, nonostante la pubblicazione di comunicati stampa circostanziati, e siamo probabilmente ancora all’inizio, con Moncler che ha dato mandato ai suoi legali per tutelarsi in tutte le sedi. Nei procedimenti che si apriranno, anche il danno reputazionale subìto online avrà probabilmente un importante ruolo da giocare, in un periodo di acquisti natalizi ormai alle porte e di consumatori sempre più consapevoli.

COME GESTIRE UNA SITUAZIONE DI CRISI
Quel che è successo domenica sera con la trasmissione “Siamo tutti oche” di Report è un classico caso di crisi che, improvvisamente, si apre per un’azienda. Previsto nei manuali di comunicazione, non sempre trova le aziende preparate. Spesso hanno procedure predefinite, ma molto più spesso reagiscono emotivamente e tendendo a chiudersi a riccio. Niente di più sbagliato, soprattutto nell’era dei social. Ecco l’opinione del professor Enrico Valdani del dipartimento di marketing della Bocconi

Crisis management, il caso Moncler

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