Di troppo export si può anche morire. Il caso Natuzzi, tornato caldo in questi giorni con la richiesta di oltre 1700 esuberi nelle fabbriche Divani&Divani, nasconde anche questa verità. Che diventa amara quando si compete nelle fascie medie di mercato dove la competizione è selvaggia all’interno e nel mondo. Non andrebbe dimenticato quando troppo spesso ci si esalta di fronte a tanti campioni nazionali che hanno risentito meno della crisi proprio grazie alle vendite internazionali.
Pasquale Natuzzi è un signore con le idee molto chiare e i modi spicci, ha creato una multinazionale quotata a New York con l’idea di dare a tutti un divano come quelli di lusso. E’ diventato il motore del distretto dell’imbottito nella Murgia. Adesso si trova nella difficile situazione di dover amputare la sua azienda per poterla fare sopravvivere. Tante volte si è scagliato contro i “cinesi” di casa nostra, quelli che nei sottoscala e in posti ancora peggiori fanno lo stesso lavoro dei suoi operai con paghe scandalosamente più basse. Ha tenuto la bandiera del made in Italy nei suoi sette stabilimenti, ma quasi il 90% dei suoi ricavi arriva dall’estero. Per troppe ragioni ha dovuto delocalizzare, per troppe ragioni non poteva reggere la concorrenza (sleale e non) di sistemi economici con costi molto più bassi che nel nostro.
Una brutta storia quella Natuzzi che dovrebbe mettere in allarme tutto il made in Italy e consolidare una convinzione spesso esposta ma ancora poco sufficientemente diffusa. Le regole dei mercati sono cambiate, la distribuzione della ricchezza sta cambiando. In questo nuovo mondo non c’è futuro per la manifattura italiana senza specializzazione, qualità e, perché no, un pizzico di sogno.