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L’export italiano visto da uno straniero

Pierre-Marie Relecom, francese, ha fondato una società di consulenza che fornisce servizi di cultural intelligence. “Per fare business all’estero la competenza tecnica non basta. L’identità nazionale può rappresentare un ostacolo capace di mettere in discussione capitali, know how e prodotto che si vuole introdurre in un nuovo mercato”

Pubblicato il 04 Dic 2013

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Pierre-Marie Relecom

«Non basta essere presenti in un mercato straniero. Per avervi successo bisogna anche conoscerlo». Pierre-Marie Relecom, 36 anni, francese, nel 2007 ha fondato una società di consulenza, la Relecom & Partners, che fornisce servizi di “cultural intelligence”. «L’idea mi è venuta quando mi sono sposato», spiega. «Mia moglie è italiana. Per quanto lei parli francese e io italiano, gli ostacoli culturali tra noi c’erano. Quindi ho capito che le stesse barriere possono impedire il successo degli investimenti».

Cultural intelligence! Pierre-Marie Relecom si è confezionato un abito professionale che spesso chi va all’estero per investire non mette in valigia. Perché non lo si ritiene utile. «Per fare business in Qatar, o in Estremo Oriente la competenza tecnica è fondamentale. Ma è impossibile pretendere che solo così si arrivi a un risultato». Il modo di pensare dei cinesi o degli arabi non è lo stesso degli italiani, oppure dei francesi. Sembra una banalità, ma l’identità nazionale, quindi la cultura nel senso generale del termine, può rappresentare un ostacolo capace di mettere in discussione capitali, know how e prodotto che si vuole introdurre in un nuovo mercato.

La stampa francese parla di Relecom come del “Globe-trotter des affaires”. Una sintesi tra quello che dovrebbe essere oggi un consulente di impresa internazionale e un esploratore del new business. «Per me innovazione significa trattare i progetti dei clienti non dal punto di vista tecnico e basta, ma culturale. Bisogna far convergere le ambizioni degli investitori e le attese dei mercati».

Relecom con l’Italia ha un legame sentimentale e professionale, quindi dice di noi: «Per fare affari nel vostro Paese bisogna pensare in italiano e agire in italiano».

A dispetto di quanto si pensi, Relecom è convinto che il nostro mercato sia un contesto ancora interessante. «High tech, lusso, design e tanti altri settori. Le vostre imprese sono partner invidiabili con le quali confrontarsi». Ed è su queste opportunità che i big del mercato globale vogliono scommettere. «Conosco gli al-Thani (la famiglia reale del Qatar, ndr): non sprecano i loro soldi dove non c’è futuro».

D’altra parte la Qatar Investment Authority – il cui sbarco in Costa Smeralda quest’estate ha fatto discutere – non si limita a venire in Europa. «Doha attende a braccia aperte il vostro expertise», dice Relecom. «Il Paese ha stanziato oltre 300 miliardi di dollari per i prossimi 15 anni, destinati alla realizzazione di strade, tunnel e ponti». «È vero, la maggior parte degli appalti è nelle mani di compagnie sudcoreane e turche. Ma Doha non si pone il problema di parlare anche con gli italiani». Se però i nostri investitori fossero davvero interessati al Qatar.

Certo, c’è Impregilo, che si è aggiudicata il contratto per la costruzione della linea metropolitana North red-line for Metro. Oppure Salini-Todini, responsabile della realizzazione del Croos-Bay tunnel, una perforazione di 10 chilometri che collegherà West-Bay al porto (7 miliardi di dollari di contratto). «Sono tutti progetti dalle proporzioni enormi e che richiedono automaticamente l’intervento di altre società in subappalto, le quali potrebbero chiaramente essere italiane».

Da qui l’esempio della Fribel International Ltd. «Ha vinto la gara per la pavimentazione del New Doha International Airport, oltre che per il mega shopping center e la stazione ferroviaria di Doha». L’unico problema è che la Fribel è stata fondata da italiani, ma ha sede negli Usa.

Stesso discorso per l’Indonesia: locomotiva per eccellenza nel Sud-est asiatico. «Il Paese è in crescita – commenta Relecom – ma in settori differenti rispetto al passato». Negli anni Novanta il suo mercato immobiliare si era gonfiato a dismisura. «Oggi non sono sicuro che quello delle costruzioni sia ancora un comparto interessante». Al contrario di quello minerario. Cinque anni fa è iniziata l’operazione Copper Mining and Coal, impostata sull’idea della bassa qualità ma ad alto rendimento quantitativo. «Lì, le opportunità sono immense». Come pure nelle infrastrutture. Il governo ha deciso la realizzazione di una rete di tunnel e ponti che uniscano le isole più grosse e popolate.

«Fatti i soliti nomi, l’Italia in questi Paesi è assente!» Dice Relecom, il cui fine è invertire la rotta. Cioè facilitare i capitali italiani in questi mercati. Alla stregua di come qatarioti e indonesiani investono da noi. Inutile tornare sul caso Thohir.

Da pochi anni, la Relecom & Partners ha aperto i suoi uffici anche a Roma e Milano. «Il vostro difetto è la mancanza di coesione nazionale. Un toscano che si sposta in Umbria si sente già all’estero». Per Relecom questa frammentazione campanilistica è incapace di sopravvivere ai grandi numeri della globalizzazione. Ma non tutto è perduto. «Un imprenditore italiano che va all’estero ha molte più possibilità di essere ascoltato di quanto non sia per un francese arrogante e colonialista». Questo perché il nostro approccio culturale è più duttile. Che detto da un parigino…

(Antonio Picasso)

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