Altro che Silicon Valley. Gli Stati Uniti sono affamati di manifattura vecchia maniera. Parola di Fomas, un’industria di Lecco attiva dagli anni ’50 e specializzata nella realizzazione di componenti in acciaio anche per il settore petrolifero, di cui in questi giorni si sta parlando molto. Perché l’azienda italiana ha appena fatto acquisti negli Stati Uniti aggiudicandosi un’intera azienda del South Carolina e stupendo chi, da italiano, è abituato a subire lo shopping in casa più che a realizzarlo all’estero.
La società lombarda, invece, ha dimostrato che i concorrenti stranieri si possono conquistare. Persino in un mercato forte come quello statunitense dove il gruppo ha comprato la Ajax Rolled Ring & Machine: 45 milioni di fatturato e cento addetti che producono anelli laminati per trasmissioni, cuscinetti e ingranaggi.
«L’operazione americana è semplicemente la quadratura del cerchio», spiega Jacopo Guzzoni, amministratore delegato di Fomas. «Intendo dire che l’acquisizione ha completato il nostro piano geografico: volevamo solo offrire ai nostri clienti una produzione in loco completa ed efficiente e nel settore siderurgico, specie se funzionale al comparto oil&gas, a volte è più conveniente produrre localmente che esportare».
L’azienda di Guzzoni esiste da oltre cinquant’anni e conta sedi in India, Cina e Francia. Ma è negli States che realizza la maggior parte del suo fatturato grazie a un settore, quello energetico, affamato di sistemi, ingranaggi e componenti per l’estrazione, la lavorazione e lo stoccaggio delle fonti non rinnovabili. Una tendenza confermata sia dall’aumento delle importazioni di componenti siderurgiche (+19% a gennaio 2014 secondo l’analisi del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti) sia dal sorpasso del Paese a stelle strisce sull’Arabia Saudita – secondo i dati dell’International Energy Agency (IEA) – in fatto di produzione di petrolio e suoi derivati: pari a oltre 11,5 milioni di barili a giorno made in Usa.
«Certamente questo elemento ha avuto un peso nella nostra decisione di acquistare l’azienda statunitense», spiega Guzzoni, «ma il vero motivo del rilancio sul mercato americano è, finalmente, la riconsiderazione del settore siderurgico da parte degli Stati Uniti». Può spiegarci meglio? «Fino a dieci anni fa sembrava che l’unico comparto trainante dell’economia negli Usa fossero le nuove tecnologie, mentre il mercato siderurgico e meccanico quasi veniva considerato roba superata. Invece finalmente ci si è resi conto che oltre alle Silicon Valley servono anche realtà legate alla manifattura».
Nel 2013 il gruppo italiano ha fatturato 358 milioni di euro e con i suoi 1.300 dipendenti, continua a espandersi. Certo, viene da chiedersi se il settore su cui sta puntando – petrolio e gas – non sia desueto in un momento storico dedicato alla sostenibilità e allo sfruttamento di energie alternative e pulite. «Da qualche anno l’oil&gas è il settore trainante della compagnia, è vero, ma solo in attesa che il power generation riprenda – confessa Guzzoni – Perché il fabbisogno di energia c’è e ci sarà sempre, che si tratti di turbine a gas, centrali a carbone o nucleari. Ma se mi chiede se credo nell’esaurimento delle fonti non rinnovabili, bè, le rispondo così: sono scenari plausibili ma ultra decennali e quindi non li prendiamo nemmeno in considerazione»
Sì, ma in ogni caso puntare tutto il proprio business su una fonte non sostenibile non è controproducente? «In realtà il futuro dell’energia dovrà essere un giusto mix tra fonti alternative, rinnovabili e non rinnovabili: è questo che crea la sostenibilità. Molti Paesi lo stanno già facendo, diversificano, e noi forniamo loro i componenti meccanici adatti a gestire tale diversificazione: dal 2007 a oggi abbiamo investito oltre 250 milioni di euro in ricerca e sviluppo e nuove tecnologie. Purtroppo gli unici a non avere una politica energetica in tal senso siamo noi in Italia e l’assenza di un piano la stiamo pagando con bollette salate e costi dell’energia troppo alti»
Allora perché non andare via dalla Penisola visto il successo oltreoceano? «Potremmo andarcene in mercati con un sistema del lavoro più flessibile, meno burocrazia e costi più bassi di produzione ma il know-how e la competenza che abbiamo qui sono ineguagliabili», risponde Guzzoni. La bravura made in Italy, però, non è l’unica ragione per mantenere un avamposto siderurgico in Lombardia.
Il gruppo vede Italia, Germania e Francia e i Paesi nordeuropei come mercati ancora appetibili. «Non è vero che l’Europa è chiusa o non offra più possibilità per il nostro settore, ci sono comparti in cui possiamo scalzare concorrenti agguerriti. Non in Europa dell’Est, però, dove le aspettative di crescita non sono state mantenute», conclude Guzzoni che prevede un futuro anche in Africa. «Certo – chiosa – se dovessi immaginare un paese ideale in cui espanderci direi il Continente africano: ma è una realtà ancora troppo acerba, forse sarà pronta tra 20 anni. Nel frattempo preferisco puntare sul Vecchio Continente».