Millecento dipendenti, oltre la metà dei quali lavorano negli stabilimenti esteri; 190 persone impiegate nel settore Ricerca e sviluppo (60 di queste in Cina); ricavi per 203 milioni di euro nel 2015, con una previsione di crescita del 10% nel 2016, dell’11% nel 2017 e del 12% nel 2018. Un successo che Francesco Nalini, direttore generale di Carel, spiega con la “costante innovazione di prodotto e di processo”. Il gruppo padovano fondato nel 1973, uno dei leader mondiali nelle soluzioni di controllo per condizionamento, refrigerazione e riscaldamento, è cresciuto soprattutto nell’internazionalizzazione, tanto che, sebbene il mercato maggiore sia ancora l’Italia con il 21% (ma i condizionatori made in Italy che utilizzano la componentistica Carel sono a loro volta in gran misura esportati), il 28% della produzione è diretto al resto dell’Europa occidentale, il 13% all’Est Europa e Medio Oriente, il 18% all’America (giusto a ottobre 2015 è stata aperta una sede in Messico) e il 20% all’Asia. E ora il gruppo, che nei suoi stabilimenti sta introducendo anche i robot collaborativi di ultima generazione, capaci di collaborare con gli operai per aumentare del 30% l’efficienza e ridurre del 70% la difettosità, prevede “assunzioni sia in Italia sia all’estero”.
In un’intervista a Repubblica, il dg del gruppo padovano, Francesco Nalini, spiega infatti che l’introduzione della meccatronica in azienda non avrà “impatti negativi per i nostri dipendenti, che saranno liberati per attività professionali a maggior valore aggiunto”. E, per dare maggior spinta ai progetti di sviluppo, non esclude una prossima quotazione in Borsa (che le due famiglie azioniste dell’azienda, Rossi Luciani al 60% e Nalini al 40%, stanno valutando già fin dal 2008 quale eventualità per agevolare acquisizioni utili alla crescita). “Stiamo guardando con molto interesse – spiega al quotidiano Nalini, figlio di Luigi, uno dei fondatori e ad di Carel – all’eventualità in futuro di una quotazione. Pensiamo che ci permetterebbe di accelerare il processo di sviluppo, perché ci darebbe visibilità e capacità di attirare talenti e maggiore credibilità. E poi potrebbe aiutare a gestire il passaggio generazionale in modo più tranquillo e sereno. Non abbiamo nemmeno del tutto escluso di aprire il capitale a fondi, ma privilegiamo la Borsa perché implica un orizzonte di lungo periodo e sarebbe più coerente con la nostra forma mentale. Non avendo necessità di cassa, nessuna fretta”.
Lo sbarco a Piazza Affari sarebbe, insomma, uno strumento in più per favorire lo sviluppo. “Abbiamo ottime possibilità residue di crescita – sottolinea infatti il dg – anche per trascinamento. Ma ci interesserebbe per il futuro acquisire qualche azienda da integrare per sinergia tecnologica o che ci permetta una accelerazione in termini di quote di mercato. L’azienda in questione dovrebbe avere cultura e taglia simili a noi. Difficile da trovare, perché sono poco visibili, non quotate, pochissime sono in vendita. Di sicuro non lo siamo noi”.