Il made in Italy può internazionalizzarsi senza digitale (e senza un colosso di internet che accompagni il processo di espansione all’estero)? A giudicare dall’incontro di presentazione del Rapporto Export di Sace, sembrerebbe di no. Per la prima volta infatti, a commentare i dati sulle esportazioni italiane elaborati dalla società pubblica di assicurazione del credito c’era anche Google, rappresentato dal country managing director per l’Italia Fabio Vaccarono. Il messaggio sembra chiaro: le possibilità di crescita delle aziende italiane sui mercati internazionali si riducono di molto se non c’è una strategia online ben definita, magari supportata da un gigante come Big G o da altri player di primo piano.
Ma per capire quale spinta potenziale potrebbe arrivare da un’accelerazione delle aziende italiane sul digitale, bisogna partire dai numeri forniti da Sace. Il quadro consegnato dal gruppo che assicura le imprese tricolori attive all’estero e le copre da problemi di pagamenti è sostanzialmente positivo: l’export italiano sta tornando a crescere. Dopo un andamento stagnante nell’anno appena trascorso (-0,1%), già nel 2014 potrebbe far registrare un incremento del 6,8% e raggiungere un valore complessivo nel 2017 di circa 539 miliardi di euro. In quattro anni, cioè, la crescita media potrebbe essere del 7,3%.
[Ecco il Rapporto Export Sace 2014-2017 “Rethink”]
I maggiori Paesi di sbocco, nei prossimi tre anni, sarebbero, ancora una volta, gli emergenti: Cina (tasso di crescita previsto: +11,2%), Russia (+10,5%), Arabia Saudita (+9,2%) e Brasile (+9,1%). E due saranno, più di altri, i settori trainanti, con ritmi di crescita più alti dell’8%: l’agroalimentare (+8,9%) e la meccanica strumentale che da quest’anno al 2017 potrebbe aumentare dell’8,5% in media.
Esportare però assume un significato diverso rispetto al passato. Non basta vendere oltre confine. Si tratta anche di accaparrarsi nuove quote di mercato nei Paesi a maggior potenziale. Per fare successo con il “nuovo export”, destinato soprattutto alle classi medie (in costante crescita anche dal punto di vista demografico) delle aree emergenti, bisogna equipaggiarsi – suggerisce il rapporto Sace, denominato non a caso “Rethink” – con strumenti innovativi. I nuovi “attrezzi” del mestiere devono essere sia finanziari, per coprirsi al meglio dai rischi di credito in Paesi ancora poco conosciuti dal punto di vista commerciale, che tecnologici.
Ed ecco che la lente di ingrandimento va ripuntata sulle aziende che operano nel digitale e che si stanno dando da fare per agevolare
– si vedrà se in modo disinteressato o meno – il made in Italy. Da Google arrivano un po’ di dati a supporto delle iniziative come la piattaforma online per mappare le eccellenze artigianali del nostro Paese e il sistema di e-learning (sempre targato Mountain View, con la collaborazione dell’Università Ca’ Foscari) per spiegare agli imprenditori come valorizzare il proprio business in un contesto 2.0.
Il primo numero a cui guardare è l’incidenza dell’economia digitale nei tassi di crescita dei Paesi del G20: il 25%, un quarto della fetta. Certo, al momento la internet economy vale solo il 4% del Pil dei venti Paesi più industrializzati del mondo. Ma sono le prospettive che contano. Se facciamo riferimento al Pil italiano, per ogni euro di crescita, almeno 15 centesimi riguarderanno il fattore internet. Collegando questi dati alla popolarità del brand “made in Italy” nel mondo (+12% di ricerche su Google nel 2013 su temi afferenti all’italianità e +56% sugli stessi argomenti nelle ricerche fatte da dispositivi mobili), la conclusione a cui si potrebbe arrivare è che non è pensabile una crescita senza digitale. Piaccia o no, finché non ci saranno big player italiani a dominare internet, è probabile che Google e gli altri mostri sacri del web continueranno ad avere un ascendente forte sulla capacità delle aziende tricolori di promuovere le loro produzioni sui mercati esteri.