“In Italia gli investitori sono più abituati a puntare sulle idee che sulle persone. Invece bisognerebbe fare il contrario e sviluppare da subito una cultura del management”. Per il fondatore di Eos, Silvano Spinelli, l’ecosistema italiano non cresce abbastanza anche per un problema di approccio da parte di chi ha le risorse per investire. L’errore, secondo il chimico che ha creato la startup protagonista della clamorosa exit da 400 milioni lo scorso autunno, consiste nel finanziare anche le nuove imprese che non hanno una cultura manageriale sviluppata. Ma a prescindere dalle difficoltà, alcune buone notizie per il mondo dell’innovazione tricolore ci sarebbero. Tra queste, il crescente interesse da parte delle istituzioni per la formazione e la ricerca e l’attenzione dei fondi pubblici per la nuova imprenditoria innovativa. E in questo contesto, l’imprenditore toscano ha deciso di fare la sua parte aiutando le imprese biotech in fase embrionale. Ecco come.
Spinelli, ci sono abbastanza fondi per l’innovazione in Italia?
Se guardiamo all’attività dei venture capital, per quanto in crescita, siamo molto indietro rispetto ad altri Paesi europei. I numeri presentati da Aifi in marzo lo dimostrano. E per il campo biotech, quello che mi sta più a cuore, la situazione è ancora più critica.
Ha fiducia negli investitori italiani?
Un miglioramento rispetto al passato c’è. Tuttavia non riesco a inquadrare bene il venture capital italiano. Mi sembra che lavorino con principi differenti rispetto a quelli che sono abituato a vedere in altri contesti. A me è stato insegnato che un venture capital investe fondamentalmente nelle persone e, solo dopo, anche nelle idee. Tra gli investitori di successo, non ho mai visto investire solo nelle idee. Mentre non riesco ancora a vedere la stessa cosa in Italia. Mi pare che si punti più sui progetti, perché forse non c’è una sufficiente cultura del management e non si sa abbastanza quanto questa cultura sia determinante per strutturare un’azienda e per farla sviluppare. In ogni caso, preciso che i miei contatti con i venture capital italiani sono limitati.
Vede elementi incoraggianti nel panorama italiano dell’innovazione?
Io noto una serie di segnali positivi. Ho sentito ministri e uomini delle istituzioni – penso a Graziano Delrio ma anche ad altri – dimostrare forte interesse nei confronti della scuola e della formazione. E quando c’è attenzione verso l’istruzione, si è a un passo dall’interesse verso la ricerca e l’innovazione. Se si punta a istruire meglio la popolazione, vuol dire che si considera l’innovazione come la chiave di volta da cui ripartire.
Chi deve occuparsi di finanziare le nuove imprese?
Ho visto che il Fondo Italiano d’Investimento ha investito molto in innovazione e mi auguro che questi soggetti legati allo Stato, come il Fii, la Cassa Depositi e Prestiti, il Fondo Strategico Italiano e così via, utilizzino una buona parte dei propri fondi per finanziare l’innovazione, con un occhio di riguardo per le biotecnologie. Non essendo fondi privati, hanno più possibilità di finanziare da zero e di intervenire quando le imprese sono ancora precoci facendo crescere le persone che ne fanno parte. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di un fondo di fondi che prevede la compartecipazione di pubblico e privato: investire in tante iniziative early stage, magari anche pochi soldi, ma creando cultura di impresa e voglia di rischiare.
Cosa farà lei per aiutare le startup e contribuire alla crescita dell’ecosistema?
Il mio obiettivo personale è lavorare con i venture capital che conosco bene. Voglio avere a che fare con quei fondi che hanno voglia di investire riuscendo a farsi affiancare da un investitore pubblico in grado di duplicare gli investimenti e di promuovere la nascita di più startup. Il mio compito sarà quello di avvicinare i vari soggetti: fondi privati, soggetti legati al pubblico e nuove imprese. I migliori venture capital sanno formare il management – io ho imparato da loro –, insegnano a gestire un cda, i soci… Io vorrei fare la stessa cosa.
Nel concreto cosa farà?
Inizio insieme a Sofinnova a seguire qualche startup in fase embrionale per poi bussare alle porte dei fondi istituzionali e allargare il campo. Per poterlo allargare serve il sostegno del pubblico. E notare questa nuova sensibilità da parte dei soggetti pubblici mi fa ben sperare. Mi fa pensare che stiano pensando più all’innovazione che al numero di posti di lavoro legati alle singole iniziative. Come ho già detto in precedenza, è meglio creare cento aziende innovative con quattro dipendenti che mantenerne in vita una decotta con 400 impiegati. In Italia, qualcuno sta iniziando a capirlo.