Che il settore farmaceutico in Italia non goda di ottima salute lo si sa da almeno due decenni. Almeno tredici i centri di ricerca e produzione chiusi o dismessi dal 1998, soprattutto di major come Pfizer, Novartis, Sanofi Aventis. Eppure i numeri, che rendono l’Italia seconda solo alla Germania per valore della produzione farmaceutica in Europa, sono di tutto rispetto: 174 fabbriche, 62.300 addetti (90% laureati o diplomati), 28 miliardi di produzione, il cui 71 per cento destinato proprio al mercato estero.
Secondo gli ultimi dati di Farmaindustria, l’export è cresciuto del 14 per cento nel 2013 e del 64 per cento negli ultimi 5 anni (con un aumento del 7 per cento della media manifatturiera). A farla da padrone sono le grandi multinazionali del farmaco, colossi che hanno permesso al mercato italiano di rimanere a galla nonostante la crisi e per le quali l’Italia rimane un polo interessante sì, ma come centro manifatturiero d’eccellenza, mentre ricerca e sviluppo vengono spostati altrove.
Dove c’è meno burocrazia, pressione fiscale, meno complessità nella normativa del lavoro. A questo si aggiunge il fatto che il cliente privilegiato del settore farmaceutico classico è il servizio sanitario nazionale, molto in difficoltà. Un mercato sostanzialmente fermo nel quale, per inserirsi, bisogna cambiare regole, prospettive e modelli di business.
Quello che sta tentando di fare Aurora Biofarma, casa farmaceutica con base a Milano, nata a fine 2010 dalla visione di Nicola Di Trapani e dei suoi soci, tutti ex dirigenti provenienti dal mercato tradizionale. Aurora mette sul mercato prodotti a maggioranza parafarmaceutici e biotecnologici, fabbricati in Italia dalla DDFarma di Lissone, importati dalla Norvegia o di ricerca svizzera. È il consumatore privato a essere il cliente di riferimento, non lo Stato: i farmaci quindi non sono rimborsabili dal SSN e non sono a basso costo, ma si presentano come prodotti di altissima qualità.
Questa la ricetta dell’azienda, che con i suoi farmaci, pensati per adulti, bambini e animali da compagnia, ha scelto di assecondare la spinta salutista che arriva dall’Europa ma si sta diffondendo anche in Italia. “Oggi il consumatore è più consapevole, si documenta su internet prima di andare dal dottore – spiega l’amministratore delegato dell’azienda Nicola Di Trapani – qualche anno fa era soddisfatto se usciva dallo studio medico pieno di ricette con altrettanti medicinali da assumere, oggi cerca di prendere meno prodotti, e se è possibile sceglie quelli a derivazione naturale. Ecco il mercato nel quale abbiamo provato ad inserirci”.
A questo si somma una struttura snella, con sette dipendenti nel settore amministrativo e circa 130 informatori scientifici disseminati in tutta Italia, e la possibilità di fare aggiustamenti e modifiche in corso d’opera a tutte le linee. Trasformazione di prodotto certo, perché “la ricerca è in mano alle multinazionali che riescono ad ammortizzare i costi diffondendo i loro prodotti nei vari Paesi e noi non siamo ancora a questo punto”, ma la scelta sembra pagare.
L’azienda vanta infatti un rating AAA secondo i criteri di Basilea3 e un fatturato in crescita che nel 2015 dovrebbe arrivare a 10 milioni di euro. Un’azienda che punta molto sui giovani, visto che nel 90 per cento dei casi gli informatori sono giovani laureati con un’età compresa tra i 27 e i 35 anni, tutti a partita Iva. Una decisione che, secondo Di Trapani, porta innumerevoli vantaggi: permette al giovane di legarsi all’azienda e crescere con lei sia dal punto di vista professionale che economico, dato che la media degli stipendi tocca i 3mila euro al mese. Proprio per puntare sulle nuove generazioni l’azienda si è aperta fin da subito al tutoring universitario, in collaborazione con le università di Milano e Pavia.
“In quattro anni sono passati da noi tra i 200 e i 250 ragazzi. Noi siamo tuttora in cerca di personale, ma non esiste una forma legislativa che ci aiuti a formare un libero professionista, fornendogli per esempio un supporto economico mentre inizia a immettersi nel mercato – continua l’amministratore delegato – L’università ci ha proposto di creare un master, che però dovrebbe essere finalizzato all’assunzione a tempo determinato o indeterminato. Per sua natura, la professione dell’informatore scientifico è invece un lavoro a provvigione e flessibile”.
“Non sappiamo a chi rivolgerci – conclude Di Trapani – crediamo che la flessibilità che tanto lo Stato propone non debba essere solo facilità di licenziare ma sopratutto quella di assumere e immettere le nuove leve nel mercato”. Tutto il mondo del lavoro, non solo quello farmaceutico, ne gioverebbe.