Formazione

Open innovation, perché i ricercatori non sono sempre buoni imprenditori

«I giovani di BioUpper vedevano la possibilità di trasformare la loro idea in un impiego, non in un’impresa», dice Guido Guidi, Head of Region Europe di Novartis Pharma, tracciando un bilancio della prima edizione del contest per innovatori nel bio-tech. Invece devono «perdere la mentalità del borsista» e «imparare l’imprenditorialità»

Pubblicato il 29 Set 2016

ricercatore-160928164117

“I giovani hanno bisogno soprattutto di un aiuto per trasformare le loro idee in qualcosa di fattibile, ma devono imparare a cambiare mentalità”: lo ha detto Guido Guidi, Head of Region Europe di Novartis Pharma, multinazionale della salute, intervenendo al recente Technology Forum Life Sciences a Milano.

Novartis è interessata a sperimentare lopen innovation, modello di innovazione secondo il quale le imprese, per creare più valore e competere meglio sul mercato, non si basano soltanto su idee e risorse interne ma ricorrono a strumenti e competenze tecnologiche che arrivano dall’esterno, per esempio dalle startup.

In questa ottica ha organizzato l’anno scorso la prima edizione di BioUpper, iniziativa a sostegno dei giovani talenti del LifeScience promossa con Fondazione Cariplo e in collaborazione con PoliHub, l’incubatore gestito dalla Fondazione Politecnico di Milano, e con Humanitas, gruppo ospedaliero e avanzata struttura di ricerca.

L’iniziativa intendeva aiutare aspiranti imprenditori, molti dei quali provenienti dal mondo della ricerca, a

elaborare, formalizzare e presentare progetti innovativi di prodotto o di processo nel campo delle scienze della vita. In 2 mesi sono arrivati 118 progetti. I più meritevoli sono stati accompagnati in un percorso personalizzato che ha consentito loro di accedere a risorse, strutture e relazioni in un settore all’avanguardia come quello medico-scientifico. I tre migliori gruppi di lavoro hanno ricevuto in più un contributo economico di 50mila euro ciascuno per sviluppare ulteriormente i loro piani.

BioUpper, ecco i 3 vincitori: lo spray nasale smart, il 3D cura-ferite e l’app per chirurghi

È già partita la seconda edizione di BioUpper, ma intano è possibile tracciare un bilancio della prima esperienza. Un modo per avere la fotografia di questo spaccato di giovani ricercatori e startupper italiani impegnati nel bio-tech, capirne le aspettative, le modalità di lavoro e la capacità di ottenere risultati concreti. Ecco qualche indicazione per gli aspiranti imprenditori, e in generale per l’ecosistema di cui fanno parte, ricavata dai commenti di Guido Guidi.

Passare dalla teoria alla pratica – “Abbiamo deciso di lanciare BioUpper – dice il top manager di Novartis – per aiutare i giovani a trasformare le proprie idee in progetti concreti ed è stata un’esperienza interessantissima. Abbiamo messo al loro fianco tutor che ne hanno condiviso il loro percorso, hanno spiegato loro come ci si approccia al mercato e quale livello di investimento è opportuno chiedere. Uno di questi giovani mi ha detto: ‘Ci avete trasformato in animali diversi…’. Questo per far capire quanto è lontano il mondo della ricerca da quello dell’imprenditoria”.

Sapere quanti soldi chiedere – “Tutti i giovani selezionati da BioUpper ai quali domandavamo quanto avrebbe chiesto agli investitori per farsi finanziare il progetto ci rispondevano: ‘Dai 200 ai 300mila euro’, promettendo di restituirne 400mila entro tre anni. Sembravano non avere ancora capito come funziona, glielo abbiamo spiegato”.

Liberarsi dalla mentalità del borsista – “Ci siamo resi conto che la mentalità era quella di assicurarsi per tre anni la libertà di fare i ricercatori senza dover dipendere da una borsa di studio. Vedevano la possibilità di trasformare la loro idea in un impiego, non in un’impresa”.

Imparare l’imprenditorialità – “Da noi gli studenti migliori di un’Università puntano a conquistare un buon posto di lavoro in una grande azienda, invece negli Usa, come mi diceva un docente di Harvard, le eccellenze vogliono mettere su la propria impresa. Occorre portare l’educazione all’impresa nelle scuole. Oltre a imparare a comunicare meglio, sia come aziende sia come mondo del bio-tech”. (L.M.)

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati

Articolo 1 di 3