Mi muovo personalmente nel settore farmaceutico e della sanità privata dal 1997, la mia azienda dal 2007 (con una percentuale consistente di fatturato), e credo di conoscerlo un po’.
Posso affermare, senza tema di smentita, che una piccola azienda, ancorché brillante, che voglia proporre soluzioni innovative per la sanità pubblica ha delle serie difficoltà oggettive.
Di recente, cosa senza precedenti, ho iniziato a confrontarmi con alcuni rappresentanti della sanità pubblica locale (regionale o provinciale) su temi relativi all’innovazione e alla razionalizzazione della spesa grazie alle tecnologie. I risultati non sono stati proprio incoraggianti. Con enorme sorpresa, ho rilevato che, paradossalmente, c’è una offerta di innovazione sovrabbondante rispetto alla domanda della nostra Amministrazione Pubblica. Anzi, forse quest’ultima nemmeno è consapevole di come potrebbe beneficiare di processi innovativi o, peggio, ne è consapevole ma le ottimizzazioni potrebbero portare risparmi che non sempre sarebbero ridistribuiti alle stesse amministrazioni virtuose. Quindi perchè innovare, risparmiare, ottimizzare se alla fine rischio di avere meno risorse?
Eppure basta aprire un giornale per capire quanto i sistemi sanitari europei siano in crisi.
In Italia, tralasciando il tema dell’uniformità e della tempestività delle prestazioni, nei prossimi anni serviranno oltre 30 mila nuovi medici, visti i raggiunti limiti di età dei colleghi dopo anni di blocco strutturale delle assunzioni per limitare la spesa sanitaria. Ergo, abbiamo un bacino di medici di base con età media elevata, non formati sulle tecnologie più innovative e poco propenso al cambiamento e all’innovazione.
In UK, l’NHS sta affrontando una seria crisi dello staff dovuta agli effetti della Brexit (i dati mostrano come quasi 4 mila infermieri europei hanno lasciato la professione in UK tra il 2017 e il 2018 e che allo stato attuale ci sono oltre 2 mila posizioni aperte) e al basso livello delle retribuzioni. Ergo, fuga delle risorse migliori.
In tutta Europa, l’aumento dell’età media sta richiedendo un livello sempre maggiore di assistenza, un numero crescente di infermieri e operatori sanitari (i cosiddetti “care workers”). Dati di The Lancet mostrano come entro il 2035 la domanda di assistenza sanitaria domiciliare raddoppierà in tutta Europa, con sensibile aumento dei costi per i servizi sanitari nazionali.
In Giappone (un contesto sociale in rapido invecchiamento), si attende una riduzione dei “caregivers” di 370 mila unità entro il 2025, così circa 5 mila case di cura nel paese stanno già testando robot di vario tipo per sostituire o integrare il lavoro degli insufficienti operatori sanitari.
I consumatori di tutto il mondo si stanno sempre più adattando a dispositivi capaci di interagire vocalmente (Alexa, Google Home, and Siri), così comScore prevede che entro il 2020, il 50 per cento di tutte le ricerche su internet saranno fatte a voce. L’incidenza sarà più elevata per le persone in età avanzata che hanno minore attitudine ad interagire con la tecnologia.
So cosa state pensando: vabbè, ma in Italia… Eppure questi dati ci interessano quanto mai. L’Istituto di Ricerca Carlo Cattaneo, analizzando dati Istat, evidenzia come la popolazione italiana stia invecchiando. Per la prima volta dal 1861 (anno in cui sono iniziate le rilevazioni), il 2018 è stato l’anno in cui gli over-60 (28,7% della popolazione) sono più dei under 30 (solo il 28,4% della popolazione), con una percentuale di 0-14 anni del 13.3% (penultima in Europa).
Allora (in un contesto di evidente squilibrio) come non chiedersi se l’introduzione di dispositivi di tecnologicamente avanzati e di nuove metodologie di prevenzione possa cambiare le modalità di interazione con il proprio operatore sanitario?
La tecnologia e i nuovi paradigmi che introduce potranno essere fattori determinanti in questo scenario di crisi?
Certo, è difficile pensare a un futuro del genere. Io non riesco ancora ad immaginare la “signuruzza” di una borgata che interagisce con un Pepper nella reception di un medico di base in via Pitrè a Palermo. Come non mi immagino un pronto soccorso in cui gli agitati parenti dell’assistito interagiscono con la voce pacata di un motore di intelligenza artificiale che fa il triage. Questo davvero non riesco a vederlo. Guardando certe aree del nostro servizio sanitario, l’idea di adottare soluzioni futuristiche sembra ancora distante anni luce, eppure Intelligenza Artificiale (AI) e Machine Learning, applicate ai dati raccolti, stanno sempre più trovando spazio nelle nostre vite (in maniera silenziosa e quasi occulta). Più di quanto crediamo.
Nel corso dello scorso anno, ma ancor più quest’anno, numerosi settori industriali nel mondo stanno valutando di introdurre l’AI per migliorare efficienza e produttività, spaziando dal “city planning” fino all’ “algorithmic trading”. IDC ha previsto che la spesa mondiale complessiva in sistemi AI aumenterà di più del 50% a quasi 20 miliardi di dollari entro la fine del 2018.
Il contesto di scetticismo (dai robot che ruberanno i nostri lavori – per chi ne ha uno – alle macchine a guida autonoma che perderanno il controllo fino all’ipotesi di vere e proprie rivoluzioni delle macchine contro gli esseri umani) evidentemente riduce la percezione dei benefici di questa tecnologia ma non l’arresta. Se implementate responsabilmente, queste tecnologie potranno cambiare le nostre vite in meglio, lo stanno già facendo. Secondo un report di PwC report, entro il 2030, l’AI contribuirà per 16 miliardi di dollari all’economia mondiale, introducendo significativi risparmi.
Come fondatore di un’azienda che lavora nel settore dell’health-tech, credo fermamente che, già oggi, l’AI possa migliorare i servizi per la salute di tutta la collettività, fornendo informazioni e supportando pazienti e personale sanitario. Quello che è possibile ottenere è molto più a portata di mano e positivo dei temuti “robotic doctors” (per me solo fantascienza).
La possibilità di accoppiare conoscenza, preparazione ed esperienza del medico al supporto analitico ottenuto con il Machine Learning, permette di migliorare il processo diagnostico e decisionale, pervenendo ad una maggiore accuratezza, qualità dei servizi sanitari e migliori livelli di assistenza.
Ritengo che, mentre il professionista (medico generico o specialista, farmacista o infermiere) non potrà che rimanere il soggetto che finalizzerà tutti i processi rilevanti di decisione terapeutica (anche per un chiaro profilo di responsabilità legale), le macchine, capaci di analizzare rapidamente enormi bacini informativi, potranno identificare sintomi, correlazioni e interazioni molto prima e in modo molto più accurato di quanto possa fare il singolo medico, favorendo una maggiore prevenzione e un tempestivo intervento.
Parallelamente, i sistemi sanitari nazionali, costantemente sotto pressione e con tempi di attesa per le prestazioni sempre maggiori, potranno vedere migliorare le loro performance grazie all’AI, che potrà effettuare attività “time-consuming”, task ripetitivi, permettendo ai medici di focalizzarsi sulla cura e sulla prevenzione.
Nelle aree depresse del mondo e della nazione, l’AI potrà permettere di estendere le prestazioni sanitarie di qualità alle aree più povere e rurali, adeguando standard e livelli di assistenza.
Ancor maggiore potrà essere il contributo di queste tecnologie nella comprensione e diagnosi di malattie rare, i cui trigger sono spesso poco noti e poco prevedibili.
Il ricorso ad assistenti vocali potrebbe permettere agli operatori sanitari di raccogliere informazioni rilevanti (quando non cruciali) direttamente dal paziente a fini preventivi e di monitoraggio o per consultare la cartella clinica, consentendo una completa focalizzazione sulla cura del paziente.
Una nazione come l’Italia che risente di forti disuguaglianze nei livelli essenziali di assistenza (LEA), dovrebbe necessariamente avere una strategia attorno all’AI capace di valutarne e mitigarne i rischi ma anche di mettere al centro le persone e i servizi per i pazienti. Politici e responsabili degli organi di controllo, dovrebbero definire delle regole che permettano di utilizzare le tecnologie responsabilmente e nel primario interesse dei singoli, rimuovendo le inutili burocrazie ma focalizzandosi sui benefici che potrebbero portare. Per fare ciò, però, oltre ai buoni propositi, è necessario un investimento su formazione, ricerca e sviluppo e politiche attive, in modo da formare nuove risorse consapevoli di creare una domanda di innovazione e capaci di essere parte attiva nell’economia della conoscenza. Se il World Economic Forum ci ha avvertito che la robotizzazione metterà a rischio 80 milioni di posti di lavoro, ma l’economia della conoscenza ne creerà 120 milioni, urge un’inversione di tendenza nelle politiche della famiglia e giovanili (determinanti per il riequilibrio del sistema) ma anche nella formazione dei giovani (determinante per poter cogliere la sfida dell’economia della conoscenza) e nella politica industriale (dando delle chance alle startup e alle piccole aziende di innovare anche nella Sanità Pubblica).
Il settore dell’healthcare è già disegnato attorno ai dati – dai dati del paziente, alle statistiche di ospedalizzazione, alla ricetta elettronica, al fascicolo sanitario (EHR), ai dati di consumo di farmaci e di accesso a trattamenti. Serve solo iniziare ad usarli con criterio.
I problemi dei sistemi sanitari europei sono complessi e non tutto potrà essere risolto dalla tecnologia, tuttavia, già oggi esistono tecnologie abilitanti che possono ridurre la pressione sugli operatori sanitari aumentando la focalizzazione sulla cura e l’assistenza dei pazienti.
Paura e scetticismo sono legittimi, ma i benefici potenziali sono enormi.
Cari Amministratori, amunì, lasciate che le vostre organizzazioni vengano contaminate dall’innovazione e dalle aziende innovative. Date una chance al futuro dei cittadini.