Era balzato agli onori della cronaca nel 2011, quando aveva partecipato al quiz televisivo americano Jeopardy!. Da una parte c’era lui, un supercomputer targato Ibm chiamato Watson, come il nome del fondatore del colosso dell’informatica. Dall’altra, due esseri umani: Ken Jennings, un habitué del programma che aveva vinto 74 partite di fila durante la stagione 2004-2005, e Brad Rutter, che ha intascato il più alto montepremi mai conquistato da un singolo giocatore di Jeopardy!. Il risultato colse tutti di sorpresa: ad aggiudicarsi la sfida non furono gli uomini ma il sistema di cognitive computing messo a punto da Ibm.
Ora però il tempo dei giochi è finito e Watson ha cominciato a mettersi a disposizione del sistema produttivo. Le prime applicazioni sono state nella diagnostica medica e nella risk analysis in campo finanziario. Ma è possibile che questa tecnologia vada a rivoluzionare anche molti altri settori come il retail, l’editoria, il biotech, il farmaceutico e l’energia. Ed è proprio per le potenziali applicazioni in campo energetico che Watson sta trovando estimatori anche in Italia. Eni è infatti tra le prime aziende tricolori interessate alle opportunità offerte dal supercomputer, soprattutto in ambito big data.
“Lo scopo di lavorare su queste enormi quantità di dati è quello di costruire informazioni che arrivino a migliorare la conoscenza di ciò che si fa. Ma il problema è: davanti a queste dimensioni, chi sa gestire la complessità e creare modelli cognitivi adeguati? Ecco allora che viene in soccorso il cognitive computing”, ha detto l’executive vice president ICT del cane a sei zampe, Gianluigi Castelli, nel corso del workshop “Watson, la nuova frontiera del cognitive computing”, organizzato da Eni e Ibm al centro direzionale di San Donato Milanese. Secondo il vice president ICT di Eni, il cognitive computing costituisce “un salto quantico” che “stabilisce una nuova santa alleanza tra uomo e macchina, in cui il computer agisce come un advisor dell’uomo in uno schema di interazione continua nel quale il dialogo avviene in linguaggio naturale”.
Per affrontare le tematiche complesse correlate ai big data, è quindi necessario interagire in modo semplice con le macchine. E strumenti come il sistema di intelligenza artificiale realizzato da Ibm possono rivelarsi particolarmente efficaci per questo scopo.
Eni ha provato a porsi come precursore in questo spazio di innovazione dando vita a una collaborazione con Big Blue (così viene ancora soprannominata Ibm) e ha costituito un team di lavoro cross-funzionale ad hoc, denominato W@eni (dove W sta appunto per Watson), volto a sperimentare le possibili applicazioni della tecnologia sui big data. Tra le quali, ha ricordato Castelli, c’è anche “l’esplorazione di nuove riserve di idrocarburi”. Se è vero, come afferma il presidente e ad di Ibm Italia, Nicola Ciniero, che “nel giro di qualche anno non ci saranno altri browser al di fuori di sistemi come Watson, capaci di processare le informazioni in modo smart e di fornire indicazioni utili per mettere al sicuro le tecnologie e prevenire i crimini informatici”, la scelta pionieristica dell’azienda di San Donato Milanese potrebbe dimostrarsi vincente.
Il rapporto tra Watson e l’Italia non è però cominciato con Eni. Della squadra di ricerca hanno fatto parte tre ricercatori italiani: Roberto Sicconi, ingegnere elettronico al servizio di Ibm dal 1985 al 2013; Alfio Gliozzo, technical leader del team e docente alla Columbia University; e Bonaventura Coppola, che al momento è visiting researcher all’Università tecnica di Darmstadt, in Germania. “Eravamo nel nucleo che doveva porsi le sfide più impegnative, quelle che chiamavamo grand challenge. Tra queste c’era Jeopardy!, all’inizio sembrava senza speranza, ma dopo, risposta dopo risposta, ci rendemmo conto che avevamo fatto un gran lavoro”, ricorda Sicconi, che ha da poco fondato per conto proprio Telelingo, una startup di tutoring online.
Tricolore è soprattutto la ricerca in ambito linguistico e semantico del sistema di question answering sviluppato da Ibm Watson. “Il nostro progetto non si limita a capire i termini chiave come fanno i normali motori di ricerca”, dice Gliozzo, che vive e lavora a New York ma si è laureato in Filosofia a Bologna e si è specializzato in Information & communication technology a Trento. “Watson cerca anche le correlazioni semantiche tra le parole e le fonti delle possibili risposte sia in database che in basi documentali. Poi dà un punteggio alle varie ipotesi elaborando una classifica della confidence: è così che si genera la risposta più probabile”. Applicata ai big data, questa capacità di ragionare “come gli umani” e di rispondere a domande complesse potrebbe portare a sviluppi rivoluzionari. Se così fosse, sarebbe ancora una volta merito (anche) del talento italiano.