La settimana scorsa, intervistato da Paolo Bricco su Il Sole 24 Ore, Pierluigi Paracchi, fondatore e CEO di Genenta Science, unica società tech italiana quotata al Nasdaq (verso 16 tedesche, 13 francesi, 5 spagnole e 103 israeliane), aveva lanciato una provocazione – che poi tanto provocazione non era:
“Con il Venture Capital stiamo replicando il paradosso del nostro sistema educativo. Cresciamo e finanziamo talenti che poi vanno all’estero.”
Come tutte le provocazioni dietro c’è un ampio ragionamento. Per questo con Giovanni Iozzia abbiamo convocato Pierluigi a Innovation Weekly per approfondirlo (qui il link per chi volesse risentire la puntata).
Questo è, in sintesi, il Paradosso di Paracchi sul Venture Capital italiano (ed europeo).
“In Italia abbiamo un Venture Capital piccolo e troppo sbilanciato sugli investitori pubblici. E il Venture Capital è figlio dei propri LP. Ove c’è leadership tecnologica, il Venture Capital fa meraviglie. Nei paesi che sono follower tecnologici, il Venture Capital finisce per diventare un intermediario (remunerato) di tecnologia (buona) verso i paesi leader. Il motore (in gran parte pubblico) finanzia società. Quelle che vanno bene volano via. Questo se succede in settori strategici diventa un problema nazionale, ancora più grave visto che è stato proprio il capitale pubblico a permettere di farlo. Manca oggi una direction: un conto è perdere tecnologie non strategiche, un altro è perdere quelle strategiche. Il capitale pubblico, che è così dominante nel venture, o dà la strategia o è meglio faccia altro. Negli Stati Uniti il biotech è strategico: la National Security Commission on Emerging Biotechnology (NSCEB) è parte del Dipartimento della Difesa”.
Di seguito un po’ di considerazioni emerse dalla discussione con Pierluigi.
L’intervento pubblico nel Venture Capital è cosa buona e giusta
L’azione pubblica a sostegno dell’innovazione resta una cosa buona e giusta. Se c’è una colpa, è che è solo stata tardiva e timida dal punto di vista delle dimensioni (pochi soldi).
Quello che non è successo è stato l’effetto leva. L’investimento pubblico doveva fare da volano agli investimenti privati (ad esempio, il piano dietro al mezzo miliardo investito da European Innovation Council era che ne dovesse mobilitare 2-3 volte tanti). Questo invece è successo poco. Ciò nonostante la disponibilità di risparmio che tuttora esiste nel nostro paese ma che continua ad essere impiegata nel mattone e, quando si osa, nei titoli di Stato (come la notizia di questi giorni del successo nel collocamento del BPT Valore sembra confermare).
Tra qualcosa e niente, meglio qualcosa
Una delle notizie della settimana precedente è stato il Series C round da 110 milioni di dollari della startup pisana Medical Microinstruments (MMI) guidato da Fidelity Management & Research Company.
E’ buona o cattiva la notizia che una tecnologia nata in Italia cresca negli Stati Uniti con capitali esteri? Tra le luci e le ombre, io sono sempre attirato più dalle prime.
La realtà è che i capitali italiani hanno guidato i primi passi (il Series A da 20 milioni nel 2018 era stato guidato da Andera Partners e Panakès Partners), i fondi europei quello successivo (nel 2020 aveva ottenuto dalla Banca Europea degli Investimenti una linea di credito da 15 milioni di euro). Ma quando il gioco ha cominciato a farsi serio (ossia real money) nel 2022 la società ha spostato la sede legale negli Stati Uniti ove ha chiuso un Series B da 75 milioni a trazione stelle e strisce. Il Series C di cui abbiamo parlato è il logico seguito (“Per la cronaca – ci ricorda Pierluigi – il seed round medio a Boston Cambridge – la culla mondiale del biotech – è 10 milioni, mentre il Series A medio 56 milioni. La tecnologia costa una fraccata di soldi”).
Quindi una perdita secca? No. Come per molte altre startup italiane che crescono con capitali esteri il modello applicato è quello della Dual Company che avevamo sperimentato, all’inizio del millennio, con Funambol. In Italia rimane il motore: anche MMI continuerà a produrre e sviluppare tecnologia in Toscana. Quindi all’Italia resta occupazione di qualità – che è una cosa che serve (e tanto). A questo si aggiunge un “effetto scuola” per il sistema che nel frattempo cos’ matura e cresce in competenze ed ambizione. Con Funambol nel 2005 era impensabile fare un Series A da 5 milioni in Italia. Oggi è la norma.
Più dei fondi manca la visione strategica
Che l’Italia non abbia una direzione strategica in tema di politica industriale non è invece una notizia. E’ così purtroppo da qualche decennio. Si tende a rincorrere sempre il passato cercando di mettere le pezze a cose che non stanno più in piedi (Alitalia, Ilva, Popolare di Bari, solo per fare tre dei tanti, troppi esempi) invece di cercare di costruire nuovi campioni.
Rimarca Paracchi: “Più dei capitali, quello che manca è scegliere quali sono le tecnologie strategiche e prendere posizione. Nel mio settore c’è fondazione ENEA Tech e Biomedical che ha un miliardo e mezzo. Inoltre c’è CDP, che invece che fare cento fondi e duemila investimenti, potrebbe fare pochi interventi strategici”.
Sì, perché direzione strategica significa fare scelte. E le scelte sono ahimè costose in termini di consenso perché significa dire più volte no che sì. Non credo che CDP Ventures abbia fatto cose sbagliate. Di sbagliato forse è che ne ha fatte troppe. L’esempio emblematico è la Rete Nazionale Acceleratori. Invece di farne due/tre su aree strategiche e concentrare lì tutte le risorse, ne ha fatti una ventina, diluendo il poco a disposizione tra tanti ambiti e tanti i posti.
Il che non è un male.
Ma non è una scelta. E che non sceglie, nel migliore dei casi, non va da nessuna parte.