Venture capital 2022, le tendenze internazionali e la sfida italiana della crescita

Il clima è di cauto ottimismo. C’è una correzione al ribasso nel mercato degli investimenti e saranno necessarie nuove strategie. Ma l’Italia è ancora troppo indietro. Dieci anni dopo lo StartupAct, bisogna aprire una fase due per fare arrivare nuovi capitali. E fare anche un po’ di autocritica…

Pubblicato il 06 Ott 2022

Photo by Mathieu Stern on Unsplash

L’aria che si respira in ambito venture capital è quella di un “cauto ottimismo”, in un mercato globale che è ormai sempre più maturo e consolidato e che – dopo i record del 2021 in piena era Covid19, con 621 miliardi di dollari di investimento e 959 nuovi unicorni a livello globale – si prevede possa tornare ad un “new normal” nel 2023.

Se n’è avuta conferma in occasione dell’ultima edizione dell’IPEM, la fiera internazionale che si tiene ogni anno a Cannes in settembre e con i suoi numeri si può considerare più che rappresentativa dell’ecosistema internazionale degli investitori: 618 LP (limited partners, ossia chi offre denaro, gli investitori), 711 GP (general partners, ossia chi prende denaro per poi investire nelle imprese), 52 paesi rappresentati, 400 relatori, 5.343 partecipanti, di cui il 40% donne, a testimonianza della crescente importanza che la gender diversity ha assunto nell’ambito della finanza a supporto dell’impresa.

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Venture capital 2022, le tendenze internazionali

Questi i principali take away che mi sono portato a casa:

  • il contesto macroeconomico e di conseguenza anche quello degli investitori è ovviamente fortemente condizionato dalla tempesta perfetta in atto: guerra, crisi energetica e delle materie prime, rialzo generale dei prezzi e dei tassi di interesse, fenomeni di deglobalizzazione e recessione ormai alle porte. Questo quadro problematico ha portato ad una correzione al ribasso, soprattutto in USA, nelle valutazioni delle società tech; i gestori dei fondi sono ora più attenti ai cosiddetti fondamentali, “scontando” le prospettive di crescita delle startup e riducendo quindi le valutazioni pre-money;
  • Gli LP istituzionali stanno cosi rivedendo le  strategie di asset allocation, non solo a causa delle incertezze generali macro economiche ma anche per un banale effetto “denominatore”: la svalutazione degli investimenti cosiddetti liquidi (ad esempio quelli sui mercati dei titoli tecnologici quotati) confrontata agli investimenti illiquidi (i fondi di venture capital e di private equity) determina un rapporto che deve essere rivisto, per correggere la conseguente sovraesposizione dei secondi verso i primi.
  • Per le startup è più difficile chiudere i round nei tempi previsti e ai valori crescenti, molte società anche ex “soonicorn” (le quasi startup da 1 miliardo di dollari di valutazioni) sono state abbandonate dagli investitori come conseguenza della scelta di rifocalizzare i portafogli, che richiede di salvaguardare la cassa disponibile, allungando la cosiddetta “run way” (ossia il numero di mesi oltre il quale la startup non ha più soldi).
  • Per i gestori, soprattutto quelli first time team – first time fund i tempi di fund raising si stanno allungando. Ad esempio, nel secondo trimestre dell’anno il numero di fondi che hanno effettuato il primo closing ha raggiunto il numero più basso degli ultimi 5 anni, escludendo il periodo del Covid.

Venture capital, la ricetta per il futuro

La ricetta per il futuro consiste nello sviluppare fondi di investimento con focus chiari e ben riconoscibili, anche a livello di nicchie di settore così da essere anticiclici; fondi di venture capital che devono essere gestiti da team con competenze allineate alle strategie di investimento e con un approccio serio e solido alle tematiche ESG e in generale di sostenibilità. David Dana del Fondo Europeo per gli Investimenti (il principale investitore nel venture capital europeo) ha rimarcato durante i lavori dell’IPEM, per esempio, gli ambiti di intervento delle nuove politiche di investimento InvestEU: deeptech, spazio, transizione energetica e gender diversity.

Senza voler arrivare ai 2.000 fondi di venture capital presenti oggi in Cina, in Italia “basterebbe” seguire l’esempio della Francia, che qualche anno fa ha “istituzionalmente” deciso di diventare una startup nation, investendo sull’ecosistema in generale e chiamando gli investitori istituzionali del paese a fare la loro parte, allocando capitali sempre più importanti sul venture capital francese.

Il risultato è oggi evidente: con Parigi che è diventata il secondo hub tech in Europa subito dopo Berlino, 28 sono gli unicorni francesi (più di Svezia e Olanda), 11 miliardi di investimento in startup nel 2011, 830 round di investimento, 20 nuovi unicorni dal 2021 e 4,4 miliardi di euro raccolti dai fondi francesi. Numeri da far invidia a noi italiani, che soltanto nel 2021 abbiamo raggiunto (anche grazie al ruolo determinante di capacity building di CDP Venture Capital) la soglia psicologica del nostro primo miliardo di investimenti in startup.

Venture capital, che cosa c’è da fare in Italia

10 anni fa, per opera di Corrado Passera in qualità di Ministro dello Sviluppo Economico, ora felicemente imprenditore, nasceva lo Startup Act, che ha avuto il clamoroso risultato di creare un ecosistema friendly per le startup, senz’altro oggi uno dei più vantaggiosi in Europa da un punto di vista amministrativo-fiscale. I risultati cominciano ad arrivare: investitori internazionali sempre più presenti nelle nostre migliori startup, che riescono a chiudere round prima impensabili: degni di nota quindi i recenti casi nel digitale di Satispay (320 milioni di euro, con valutazione da unicorn) e Bending Spoons (340 milioni di dollari). Unica nota stonata: non si vedono i fondi di venture capital italiani nelle captable di queste ex startup. Ma di questo ne parleremo un’altra volta, sperando di fare una sana e costruttiva autocritica.

E allora è necessario una fase due, che ci possa guidare nei prossimi 10 anni, per consolidare anche l’altra faccia della medaglia, ossia quella dei fondi di venture capital che – prima di dare fiducia alle startup quali quelle citate – devono raccogliere i capitali presso gli investitori, istituzionali e non. In un contesto storico in cui gli HNWI (high net worth individuals) e le Corporate stanno cominciando a fare la loro parte, è necessario aumentare l’allocazione di risorse da parte degli investitori istituzionali quali Casse di Previdenza, Fondi Pensione, Assicurazioni. Bisogna garantire (anche attraverso una “mano pubblica virtuosa” come quella messa in campo in questi ultimi due anni dalla CDP Venture Capital SGR) che almeno due-tre miliardi l’anno arrivino al settore del venture capital italiano, che è ancora molto frammentato e di dimensioni assolutamente microscopiche rispetto anche ai paesi europei.

Insomma, c’è ancora molto da fare ma la strada è segnata. Speriamo solo che il tema startup rimanga forte e chiaro nell’agenda del prossimo governo.

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Stefano Peroncini
Stefano Peroncini

Venture Capitalist e Serial Entrepreneur. CEO di EUREKA! Venture SGR e membro del Comitato di Investimento di FARE Venture (Fund of Funds da 80Ml€ di Lazio Innova). È stato fondatore e CEO di Quantica SGR, fondo che ha investito nella startup biotech EOS, ceduta all’americana Clovis Oncology per 470ml$

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