In Italia il fenomeno del tech transfer (o trasferimento tecnologico) è recente. Peccato, perché il sistema italiano dell’innovazione e della ricerca è davvero prezioso e rappresenta il nostro “sommerso da valorizzare”. Come ci ricorda il giornalista Massimo Sideri nel suo bel libro “La Sindrome di Eustachio”, “l’innovazione è stata a lungo italiana e lo è ancora, ma schiacciati come siamo dalla propaganda della Silicon Valley che confonde consapevolmente innovazione con successo commerciale ce ne siamo dimenticati, o forse non l’abbiamo mai saputo”.
Siamo un popolo di innovatori senza memoria.
Eppure la prima legislazione europeo sul brevetto è contenuta in un documento del senato veneziano datato 19 marzo 1474, che era volto proprio a difendere la paternità dell’opera dando al soggetto che la dimostrava il diritto di riprodurre l’invenzione in esclusiva.
Mi piace citare un altro esempio, la scoperta del polipropilene isotattico, da cui è stata poi derivata la comune plastica che tutti conosciamo, da parte dell’italianissimo ingegnere chimico Giulio Natta (premio Nobel nel 1963, firmatario di oltre 4.000 brevetti). La plastica, un materiale leggerissimo, flessibile e termoresistente che tanto ha contribuito al boom economico del nostro Paese dagli anni ’60 in poi.
In Italia però, oltre ad esserci pochi casi virtuosi di tech transfer, ancora non si è sviluppato un modello unico o consolidato di trasferimento di tecnologie e innovazioni dalla ricerca al mercato. Ricordo ad esempio i casi recenti di fondi dedicati ad investire in POC (Proof of Concept, in sostanza i prototipi, ndr) quali quello dell’Istituto Italiano di Tecnologia, di ENEA (2,5Ml di Euro per il triennio 2018-2020) o del Politecnico di Torino. Ci sono anche iniziative esterne quali il POC Instrument promosso dalla Fondazione bancaria Compagnia di San Paolo, che ha sottoscritto un’apposita convenzione per il triennio 2019-2021, con 5 università italiane: Politecnico di Torino, Università degli Studi di Torino, Università del Piemonte Orientale, Università degli Studi di Genova e Università degli Studi di Napoli Federico II. E ancora, il bando POC promosso dell’Università di Pisa finanziato da una corporate.
Anche a livello statale ci sono bandi POC: nel gennaio 2020 il Ministero dello Sviluppo Economico, attraverso la Direzione generale per la tutela della proprietà industriale – Ufficio italiano brevetti e marchi (UIBM), ha emanato un bando da 5,3Ml di Euro per la realizzazione di programmi di valorizzazione dei brevetti tramite il finanziamento di progetti di proof of concept. La stessa Direzione ha rinnovato nel 2020 il bando per potenziamento e capacity building degli uffici di trasferimento tecnologico, i cui beneficiari possono essere università, enti pubblici di ricerca ed istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS). Con questo bando, nel complesso, sono stati finanziati ben 91 progetti, per un investimento totale di 7,55 milioni di euro, grazie ai quali circa 125 esperti lavoreranno sul territorio nazionale per facilitare i processi di trasferimento tecnologico.
La rete di università di ricerca Netval, che raccoglie ad oggi 61 università e dieci Enti Pubblici di Ricerca (tra cui CNR, ASI, Enea, IIT, INFN), la cui misione è “valorizzare la ricerca universitaria nei confronti del sistema economico ed imprenditoriale, enti ed istituzioni pubbliche, associazioni imprenditoriali e aziende, venture capitalist e istituzioni finanziarie”, ci offre una visione di sintesi del sistema attuale in Italia.
Il XIV Report NETVAL (l’ultimo disponibile, del 2018, relativo agli anni 2016-2017) ci lascia alcuni numeri in grado di rappresentare lo stato di salute del sistema del trasferimento tecnologico, a partire dalla ricerca pubblica:
- gli addetti degli Uffici di Trasferimento Tecnologico italiani sono oggi 225, un numero ancora troppo basso se rapportato alle potenzialità di valorizzazione dei risultati della ricerca in Italia e alle aspettative che il sistema Paese nutre nei confronti di questa attività;
- è diminuito, ma molto poco, il numero medio di brevetti concessi nell’anno, che sono passati in media da 5,4 a 5,1;
- il numero totale dei brevetti presenti nel portafoglio delle 55 università che hanno partecipato all’indagine è arrivato a 3.917; un patrimonio di valore, al quale andrebbero idealmente aggiunti i brevetti che non sono a titolarità di docenti e ricercatori universitari ma nei quali almeno uno di essi figura come inventore; il numero medio di brevetti in portafoglio è cresciuto, in media, da 60,1 a 71,2;
- è aumentato il numero medio di licenze e/o opzioni concluse nell’anno, da 1,8 a 2,1; per le università ‘top 5’ il dato è pari a 13,2, che è un numero piuttosto interessante se confrontato con il passato;
- sono aumentate del 50% circa le entrate medie derivanti da licenze attive nell’anno, che sono passate da 23,5 a 36 mila Euro;
- è leggermente diminuito il numero medio delle spin-off create nel 2016, passato da 2,2 a 1,7, arrivando ad un totale di 1.373 imprese attive al 31.10.2017
Numeri oggettivamente inferiori, di molti ordini di grandezza, rispetto ad altri paesi per esempio europei.
Tech transfer in Italia: cos’è che non va
Numerosi i limiti del nostro sistema. Una delle maggiori critiche che viene mossa agli uffici del Technology Transfer in Italia, per esempio, è che sono assolutamente sotto dimensionati, fatto salvo i principali atenei quali il Politecnico di Torino o di Milano, le Università di Bologna e Padova. Se aggiungiamo poi che il livello di competenze è mediamente non adeguato alle sfide richieste dal ruolo e che mancano dei manager del technology transfer che siano in grado di essere riconosciuti come interlocutori idonei a parlare sia la lingua della ricerca che quella del business, è facile intuire come tante innovazioni rimangono chiuse nei cassetti dei laboratori.
E comunque anche quando queste strutture riescono ad attrarre e formare i migliori talenti, la cronica mancanza di risorse stabili da dedicare ai temi del Technology transfer e la mancanza di visione di lungo periodo in termini di crescita di carriera, fa sì che ci sia un elevatissimo turnover di personale e una perdita secca di competenze a vantaggio del mondo produttivo privato.
Da un punto di vista del marketing delle attività svolte in università e nei centri di ricerca in Italia, eppur qualcosa si è mosso. C’è per esempio la piattaforma web Knowledge Share in grado di funzionare come “vetrina” e come porta di accesso per la proprietà intellettuale degli associati Netval. Partendo da un’iniziativa del Politecnico di Torino, sulla quale anche UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi) ha deciso di investire delle risorse, la piattaforma oggi è popolata da poiù di 1000 tecnologie, a cui corrispondo altrettanti brevetti, per ognuno dei quali è disponibile una presentazione sintetica corredata da foto e video. Nel blog 90% below di Anna Amati su Startupbusiness l’intervista ad uno dei promotori, Shiva Loccisano, Head of Technology Transfer del Politecnico di Torino, che racconta Knowledge Share.
Il Centro per l’Innovazione e l’Imprenditorialità dell’Università Politecnica delle Marche ha da tempo avviato un osservatorio sugli spin-off della ricerca in Italia. Il database, gestito in collaborazione con NetVal e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa è disponibile sul sito www.spinoffitalia.it.
Tech transfer in Italia: la qualità della ricerca scientifica
Su una cosa tutti però concordano, ossia sull’elevatissima qualità della ricerca scientifica italiana, come mostra la figurta successiva e anche la recente cronaca.
(Fonte: EUREKA! Venture SGR)