Di fronte alle immagini televisive di una ragazza ucraina che atterra in Italia perché ha trovato lavoro, assunta da una tech company sorge spontanea la domanda: perché farlo? Anzi, perché non succede più spesso? Che cosa sta facendo e che cosa può fare l’ecosistema dell’innovazione per aiutare chi fugge dalla guerra, spesso con studi, esperienze e competenze di valore (mi è capitato di ascoltare in un TG l’intervista a una biologa…)?
Dopo oltre un mese di guerra è arrivato il momento di parlare di Tech4Ukraine anche in Italia. Certamente c’è già chi sta già facendo qualcosa di concreto (lo segnali a EconomyUp che racconterà le storie di accoglienza e integrazione) e chi vorrebbe ma forse non sa ancora come o perché. Ecco qualche ragione per farlo.
I profughi dall’Ucraina sono hanno superato i 4milioni. Secondo i dati del Ministero dell’Interno (23 marzo) sono oltre 65mila solo in Italia. Arrivano soprattutto a Roma, Milano, Bologna, Napoli. “La situazione è drammatica e tutto l’ecosistema, come il resto del Paese, si sta mobilitando a sostegno della popolazione ucraina”, dice Cristina Angelillo, presidente di Innovup. “Chi aveva dipendenti in Ucraina li sta aiutando a uscire, si lavora alla veridicità delle informazioni. E come associazione abbiamo chiesto al Governo di istituire visti immediati per poter far lavorare chi arriva da quel teatro di guerra”.
C’è un dramma nel dramma. L’Ucraina, che è un Paese giovane, indipendente dal 1990, ha una suo ecosistema dell’innovazione che ha raggiunto il 34 posto nella classifica globale di StartupBlink con Kiev considerata un promettente hub con più di mille startup. Questo almeno fino al 24 febbraio.
C’era, quindi, una popolazione di giovani impegnati a fare impresa, a lavorare nelle digital company, a sognare un futuro. Gli attacchi russi li hanno spinti a fare una scelta: imbracciare il kalashnikov o fuggire. Basta leggere le poche righe di alcuni diari pubblicati da Sifted per rendersi conto di come possa cambiare la vita senza che sia tu a decidere come e quando. Perché i missili e le bombe distruggono la tua città o perché la tua compagnia decide di chiudere tutto e lasciare il Paese da un giorno all’altro.
Tutti in diverso modo stiamo cercando di aiutare l’Ucraina ma si può e si deve andare oltre le donazioni. L’accoglienza deve essere per tutti ma c’è da sostenere anche l’innovation people di quel Paese per non negare all’Ucraina il diritto all’innovazione e al futuro, oltre a quello alla vita e alla libertà. Ci sono migliaia di giovani che meritano attenzione, opportunità di lavoro, finanziamenti per i loro progetti interrotti.
In tutta Europa le startup si stanno dando da fare per aprire le braccia alla tech people che in qualche modo è riuscita a lasciare l’Ucraina. Due ragazzi di Berlino, ad esempio, hanno creato una piattaforma dove è possibile postare offerte di lavoro (UAtalents). Non sempre è facile, spesso la buona volontà non basta e si scontra con regole che rendono tutto più complicato per chi arriva e per chi vuole accogliere. Andrea Orlando mi segnala che Startup Wise Guys, l’acceleratore di cui è amministratore delegato, ha creato una landing page con un pacchetto di informazioni sull’Ucraina utili sia per le donazioni sia per le ricollocazioni Paese per Paese.
Chi lavora nella tecnologia e nel digitale è per definizione internazionale: ci sono una cultura, un linguaggio, un mindset comuni che rendono più facile partire e ricollocarsi per chi si trova in zona di guerra e accogliere e integrare per le aziende e le startup che magari sono in crescita e hanno la possibilità di farlo. E non si tratta solo degli sviluppatori, i digital guy e i giovani imprenditori ucraini. Potrebbe presto esserci anche un flusso di emigrati russi: Sergey Plugokarenko, capo del Raec, l’Associazione russa per le comunicazioni elettroniche, ha detto al Corriere della Sera che entro aprile 100mila tecnici e programmatori di software se ne andranno dal Paese portato da Putin in guerra. Perché? Semplice, in Russia non vedono più alcuna prospettiva. “L’unica cosa che frena è il fatto che nessuno all’estero vuole più lavorare con persone provenienti dal nostro Paese”.
Possiamo dimostrare che non è così. Questa è un’occasione per l’industria digitale italiana, l’ecosistema delle startup, per le compagnie tecnologiche di dare dimostrazione di sostenibilità e inclusività nel senso più alto di questi termini. Le aziende che fanno tecnologia e innovazione non possono che essere imprese aperte. Accogliere e integrare chi ha deciso di darsi un’altra possibilità di vita e di lavoro lontano dalla guerra dovrebbe quindi essere è una scelta naturale, una scelta di innovazione che dipende dalla tecnologia più potente che esista, la humint, la human intelligence.