L'INTERVISTA

Stefano Bison (Generali): “Ecco come investiamo 250 milioni sulle startup per innovare il business assicurativo”

Il fondo di Corporate Venture Capital del Gruppo Generali è uno dei fatti più rilevanti dell’innovazione aziendale nel 2023. Stefano Bison, Head of Innovation, racconta gli obiettivi dell’iniziativa, il modello di investimento, e i primi progetti. “Per noi i fondi di venture capital sono anche consulenti di innovazione”

Pubblicato il 19 Dic 2023

Stefano Bison, Group Head of Business Development, Partnerships and Innovation di Generali

“Negli ultimi dieci anni il Gruppo Generali ha fortemente accelerato sull’innovazione ed è in questo contesto che abbiamo deciso di prendere un importante impegno nel Corporate Venture Capital perché il settore assicurativo sta cambiando a una velocità sempre più alta, così come cambiano i nostri clienti, i loro bisogni e anche i nostri concorrenti. Ci sono poi alcuni importanti mega trend che ci stanno obbligando a ripensare i nostri modelli di business”. Stefano Bison, Group Head of Business Development, Partnerships and Innovation di Generali, sintetizza così le motivazioni al cambiamento di uno dei più grandi player assicurativi d’Europa (oltre 60 miliardi di premi e quasi 3 miliardi di utile nei primi nove mesi del 2023) con un cuore che ancora batte forte tra Trieste, Milano e Venezia, dal 1831. Un caso esemplare di grande tradizione che affronta le sfide dell’innovazione digitale e non solo.

L’iniziativa di Corporate Venture Capital lanciata da Generali è uno dei fatti più rilevanti del 2023 per il panorama italiana dell’innovazione aziendale, dove gli impegni sono ancora relativamente limitati: 250 milioni, che entro il 2024 saranno completamente impegnati (circa metà della somma è già stata allocata su tre fondi e per l’altra diverse diligence sono in fase avanzata). Già sono partiti i primi progetti con alcune delle portfolio company dei fondi investiti, uno dei più importanti dei quali è quello con l’americana BollTech, tra le più importanti piattaforme di embedded insurance a livello internazionale.

Come Generali è arrivata a questo progetto di innovazione aperta e con quali obiettivi: è il punto di partenza del nostro incontro con Stefano Bison, da 10 anni nella Compagnia del Leone con una personale passione per l’innovazione e l’insurtech (è angel investor, siede nel board della Digital Transformation Academy del Polimi e nel direttivo dell’Italian Insurtech Association, tra le altre cariche).

Stefano Bison: il Gruppo Generali e la sfida dell’innovazione

“Stiamo facendo quello che abbiamo promesso ai mercati in occasione della presentazione del piano strategico “Lifetime Partner 2024”, che ha tre pilastri, il terzo dei quali è “Lead Innovation””, ricorda Stefano Bison. “Si tratta di 1,1 miliardi di investimenti in tecnologia e digitalizzazione, che vanno nella direzione di far evolvere il nostro modello di servizio “Lifetime Partner”, accelerare l’innovazione mettendo al centro il potenziale dei dati e ottenere efficienze operative grazie all’adozione di smart automation e intelligenza artificiale. Ma facciamo innovazione perché sappiamo che l’industria complessivamente sta cambiando, velocemente, e ci propone costantemente sfide nuove, come l’invecchiamento della popolazione o i rischi climatici o cyber, così come altre sfide note che ci tornano sul tavolo ora con maggiore frequenza e intensità”.

Un esempio di sfida che torna sui vostri tavoli?
Per esempio la stessa digitalizzazione dei canali di vendita, non è più solo fare una bella app B2C o stare in un aggregatore. Ora c’è tutto il mondo dell’embedded insurance, il quale sta evolvendo a una velocità pazzesca, peraltro con un effetto di “blurring boundaries”, cioè di confini tra settori sempre più sfumati.

Quali sono gli impatti di questo cambiamento senza confini su una grande organizzazione come Generali?
Non possiamo pensare che fenomeni come, ad esempio, il BNPL (Buy Now Pay Later) o nuovi quadri normativi come la PSD2 restino senza conseguenze. E dobbiamo fare i conti con la velocità del cambiamento. Una volta c’era un nuovo trend ogni cinque-dieci anni, adesso ogni due anni hai una novità abbastanza stravolgente e sei quindi obbligato a stare nel mercato in maniera più agile, con un approccio di ecosistema aperto perché è impensabile che il tuo modello di business possa ogni due anni cambiare per andare a cogliere le nuove opportunità, in modo veloce ed efficiente. Come per l’embedded insurance, che ti obbliga a lavorare in modo completamente diverso rispetto a quella a cui siamo abituati: dalle reti di agenti, ai partner esterni a cui affidi i tuoi prodotti, alle piattaforme fisiche o digitali di operatori di altri settori. Servono, quindi, nuove competenze, digitali e non, che li abilitino.

Il Gruppo Generali e l’open innovation

È a questo punto che arriva l’open innovation?
Sì, dobbiamo lavorare aprendo i nostri confini, collaborando con startup, player tecnologici e altri soggetti che ci permettono di essere efficienti ed efficaci su tutta la catena del valore. Per fare questo devi essere lì dove sono i clienti e questo tipo di imprese. Facciamo tanta innovazione dentro l’azienda ma dobbiamo andare anche fuori, e penso agli incubatori universitari, agli acceleratori e soprattutto ai fondi di venture capital, che non sono certo luoghi dove l’innovazione accade in senso stretto ma sono punti di osservazione strategici e molto selettivi. È un mondo che a noi piace molto.

Perché?
Generali è una delle maggiori compagnie a livello globale. Sarebbe piuttosto complesso integrare startup troppo early stage. Per noi l’equilibrio ottimale è rappresentato da aziende che hanno già un product-market-fit, una soluzione tecnologica stabile e un team capace di produrre risultati. Quindi parliamo di imprese da Series A, B e potenzialmente oltre.

Che cosa non potete sbagliare?
L’errore, quando si fa innovazione, è parte del processo stesso. Se non sbagli, non stai imparando e non stai veramente innovando. Ma allo stesso tempo c’è un tasso di errore che in alcune aziende è più tollerabile e in altre meno. Per una realtà come Generali è difficile lavorare direttamente con gli incubatori universitari, dove tendenzialmente il 95% delle startup che vediamo dopo due anni non esiste più. Quindi, la nostra domanda è: dove trovo le aziende che fanno al nostro caso?

Quale risposta vi siete dati?
Nei fondi di Venture Capital. E per questo abbiamo deciso di investire 250 milioni di euro nell’orizzonte di piano , selezioniamo i fondi che sono più allineati con le nostre priorità strategiche e, con questi, e le loro portfolio company, andiamo ad analizzare e valutare specifiche opportunità di business.

L’attività di Corporate Venture Capital del Gruppo Generali

Quindi non avete creato un vero e proprio veicolo di investimento. Qual è il modello seguito per il vostro Corporate Venture Capital?
Generali Ventures è un programma di investimenti, con una dotazione di 250 milioni di euro: questi vengono investiti in Venture Capital nell’arco di questi tre anni di piano. Non direttamente, anche se potrà accadere che una parte del capitale stanziato sarà impegnato in investimenti diretti perché possiamo fare co-investimenti con i fondi di Venture Capital in cui abbiamo investito. Ad oggi circa la metà dei 250 milioni di euro sono commitment che abbiamo dato a tre fondi di Venture Capital e, come è intuibile, sono commitment di grande dimensione.

Come lavorate con i fondi su cui avete investito?
Con i general partner e/o gli investment manager dei fondi guardiamo il dealflow per vedere cosa succede nel mercato sui vari settori / “verticali”, ma ci scambiamo anche punti di vista o tesi di investimento. Quando ci accorgiamo che un trend accelera, facciamo approfondimenti selettivi su alcune società nel portafoglio del fondo, che le conosce bene perché magari ci ha anche investito, anche se non è sempre detto. Ci ritroviamo quindi un osservatorio molto qualificato e privilegiato che ci permette di avere un accesso rapido alle startup, idealmente prima di nostri competitor, per esempio quando hanno in programma di entrare nel mercato europeo. In questo modo ci costruiamo, nel tempo, un vantaggio competitivo, sia da un punto di vista temporale che di conoscenze specifiche, e riusciamo a intercettare startup interessanti già, per così dire, “certificate” dai migliori investitori di venture capital.

Come vengono scelti i fondi di venture capital su cui investire

Con quali criteri sono stati scelti i tre fondi su cui avete investito: Mundi Ventures, Speedinvest e Dawn?
Fatta la doverosa premessa che la scelta dipende anche da ragioni opportunistiche, per esempio  quali fondi sono in fundraising, situazione di mercato corrente, condizioni di accesso e così via, il primo filtro è la loro qualità intrinseca, cioè la capacità di generare ritorni finanziari. Scegliamo solo top performer: quanto è in grado di generare ritorni sopra la media questo o quel GP? Quindi parliamo di 25-30% di IRR almeno, ma in funzione dello stage di investimento, geografia, ed altri fattori. Non è facile perché nel venture capital c’è una dispersione dei ritorni molto alta: pochi fondi generano ritorni che remunerano il rischio sottostante, la maggioranza ti restituisce forse il capitale, e un buon numero di fondi nemmeno quello. È un settore davvero molto rischioso, ed avere disciplina finanziaria e alta selettività è fondamentale per non “farsi male”.

Individuati i top performer, come viene completata la selezione?

Il secondo filtro è: quali fondi sono in linea con le nostre priorità? Noi abbiamo identificato 7 verticali strategici: insurtech (per ovvie ragioni), fintech (siamo un asset manager globale e abbiamo Banca Generali nel perimetro di Gruppo), proptech (per Generali Real Estate), mobility, cybersecurity, AI & data analytics, ed infine Health, Wellness & Prevention. I fondi devono complessivamente aiutarci a coprire il più possibile queste aree strategiche per il nostro Gruppo: qualcuno può essere più specializzato, come Mundi Ventures con l’insurtech, altri più generalisti, come Speedinvest, più early stage (prevalentemente seed e pre-seed) e quindi meno settorializzato. Considerando i verticali citati e i diversi stage di investimento e sviluppo delle startup investite, l’obiettivo è quindi quello di non perderci nulla di grosso.

D’accordo, ma i KPI di questa attività di corporate venture capital sono finanziari o industriali?
Entrambi. Il ritorno del capitale è una precondizione, e lo diamo per scontato. Ma abbiamo lanciato questa iniziativa per avere anche un ROI industriale.

Quanti piloti contate di fare?
Spero un numero alto alla fine dei tre anni, ma difficile dire quanti, saremo attenti e opportunistici. Ma noi misuriamo anche le occasioni di interazione con i fondi, come gli incontri con i manager, o i workshop strategici che organizziamo di tanto in tanto con il nostro Top Management.

I fondi venture capital come consulenti di innovazione

Quindi usate i fondi su cui investite anche come consulenti di innovazione?
In un certo senso sì. Perché vedono tante startup, in tanti sotto-settori, sanno se funzionano finanziariamente, industrialmente o no, qual è il livello di adoption delle soluzioni in altri mercati, i relativi tassi di crescita, quelli di successo delle collaborazioni con partner industriali, e così via. Quindi possono esserci di grande aiuto a fare le nostre valutazioni.

Interessante punto di vista: i fondi di venture capital come avamposti sugli ecosistemi di startup…
Sì, ma non solo. Ipotizziamo che un fondo abbia scelto due aziende specializzate nei pagamenti digitali. Il loro investimento arriva dopo un’analisi approfondita di numerose startup. Significa che hanno acquisito una competenza abbastanza specifica su quella tecnologia. Pensa di condividere quel tipo di conoscenza con i nostri colleghi. Questo permette un trasferimento di competenze all’interno del Gruppo senza necessariamente lavorare con una startup. È iper efficiente.

Oltretutto è una consulenza che non si paga…
Esatto. Quindi per noi questo è un investimento che ci produrrà sperabilmente un ritorno da top quartile nel VC portfolio, ma anche in termini di conoscenza delle tecnologie, delle soluzioni, producendo piloti e programmi di collaborazione industriale con le startup. Tutto ciò senza avere l’operatività ed i costi associati agli investimenti diretti, che sono di competenza dei fondi in cui investiamo.

I progetti con le startup

Avete già avviato qualche progetto con startup?
Sì, ne abbiamo già alcuni, diversi e uno lo posso citare in quanto più avanzato, quello con la startup americana Bolltech, nel portafoglio di Mundi Ventures, una delle principali piattaforme di embedded insurance. Con loro stiamo facendo alcuni progetti nella regione Iberica.

Quanto tempo avete impiegato dall’investimento sui fondi ai primi progetti di innovazione?
Circa un anno: è il tempo che ci vuole, in media. Fatti gli investimenti, cominci a prendere contatti con gli investment manager, guardare nel portafoglio dei fondi, filtrarli in base ai tuoi bisogni, avvi poi magari dieci discussioni, due di queste vanno avanti, devi firmare un primo accordo, portarle in business unit dove nasce poi il primo POC/MVP/pilota. Non puoi farlo in meno di 9-12 mesi se vuoi lavorare bene, il lead time è lungo, e le startup B2B lo sanno bene.

Fare innovazione, le difficoltà e la lesson learned

Il vostro piano strategico si conclude nel 2024. Quando contate di avere i primi effetti sul business?
L’anno prossimo inizieremo ad avere i primi impatti progettuali, ma sicuramente trarremo il beneficio di questa attività nel prossimo ciclo di piano, perché la coda di progetti comincerà a scaricarsi a terra, con i suoi ritorni industriali. Il Venture Capital e l’innovazione richiedono pazienza, hanno cicli di 5 e più anni, tipicamente

Qual è stata la maggiore difficoltà incontrata finora in questa attività di corporate venture capital?
La cosa più difficile è allineare gli obiettivi finanziari con quelli industriali.  Pensiamo di aver messo a punto un buon equilibrio con il nostro modello smart.

E la lesson learned nel primo anno di lavoro?
L’attenzione necessaria a quello che viene dopo il primo investimento su una startup, da parte del fondo. Occorre addentrarsi nel business di una startup, di come viene gestita, per capire se è poi possibile avere un ritorno industriale. Adesso sappiamo bene cosa chiedere in fase di due diligence per scegliere i fondi più coerenti con i nostri obiettivi.

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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