Organizzare un piano di lavoro con Trello, gestire il flusso di email con Timyo, fissare il calendario delle riunioni con Scriba. Se almeno una volta avete utilizzato uno di questi strumenti, per motivi professionali, è probabile facciate parte dell’esercito degli smart workers. In Italia, secondo i risultati della ricerca 2016 dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, ce ne sono – tra pubblico e privato – già 250mila, circa il 7% del totale tra impiegati, quadri e dirigenti. E il numero è destinato a salire. Perché lo smart working sta diventando sempre più realtà tra le aziende italiane, tanto che lo scorso anno ben il 30% di queste ha realizzato progetti concreti di lavoro agile per i propri dipendenti.
La spinta al cambiamento nasce dalla maggiore diffusione e pervasività, rispetto al passato, delle tecnologie. Computer, tablet, smartphone e applicazioni dedicate stanno ridisegnando il modo di organizzare il nostro lavoro. E non si tratta solo di pianificare la giornata in base a luoghi e orari, siamo di fronte a una nuova filosofia lavorativa basata sulla flessibilità e sulla maggiore responsabilizzazione in termini di risultati. In altre parole smart working vuol dire ripensare le modalità di lavoro delle persone, a partire dalle logiche comunicative basate sulla cooperazione e collaborazione, superando le gerarchie. «Inizialmente si è utilizzato il termine telelavoro per dare enfasi al fatto che si lavorasse a distanza – spiega Stefano Mainetti CEO di PoliHub e responsabile scientifico dell’Osservatorio Startup Intelligence. Oggi invece le tecnologie sono diventate delle commodity, e questo permette di valutare il fenomeno più in profondità. Lo smart working infatti innova le modalità di collaborazione, e seppur gli argomenti rimangano quelli tecnologici, se ne affiancano altri come, ad esempio, il comportamento e lo scambio di relazioni tra le persone o le policy organizzative».
La collaborazione che si va a instaurare tra azienda e dipendente si basa prima di tutto su uno scambio reciproco, in grado di portare benefici a entrambi, che impatta sullo stile di leadership dei manager, sempre più orientati verso dinamiche flessibili e di comunità: «Le aziende devono interpretare lo smart working – continua Mainetti – come una concessione di spazi di libertà maggiori, a fronte però di maggiore responsabilizzazione sugli obiettivi. In altre parole, io azienda ti concedo di lavorare quando ti è più comodo durante la giornata, a patto che si rispettino le scadenze e si riesca a ottenere più qualità nelle prestazioni». In quest’ottica va messa da parte la visione dello smart working concepita come una sorta di permesso di lavorare un giorno da casa: «Quella del lavorare un giorno da casa è una visione un po’ miope del lavoro agile, in parte oramai superata. Passare da una task orientation a un result orientation richiede tuttavia un cambiamento profondo nelle mentalità dei dirigenti, i quali non devono più controllare i dipendenti ma valutarli nei risultati».
Le grandi aziende, dicevamo, sono più inclini ad attivare progetti di smart working (30% sul totale tra quelle analizzate dall’Osservatorio) rispetto alle Pmi (5%). Il motivo? «Le grandi imprese hanno più sedi, più persone e più addetti alle risorse umane specializzate e culturalmente attente all’argomento» spiega Mainetti. Le pmi, al contrario, «essendo realtà con meno dipendenti, quindi più abituate alle relazioni informali, sentono meno questa esigenza e riescono a gestire meglio le assenze dal posto di lavoro. Semmai l’esigenza per le pmi è quella di rendere più produttive le ore di lavoro».
C’è poi un segmento imprenditoriale che prova a sviluppare soluzioni per migliorare la gestione delle persone e l’utilizzo degli ambienti di lavoro. È il segmento delle startup. Di alcuni tra i casi più interessanti, sia nazionali che internazionali, si è discusso durante il workshop dedicato allo Smart Working dell’Osservatorio Startup Intelligence con la ricerca guidata da Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working. Tralasciando le più conosciute a livello internazionale come Slack, Trello, Timyo o Highfive vale pena accennare ad alcune promettenti realtà italiane.
Tra queste c’è Edo.io una sorta di Whatsapp per le aziende. Fondata da Edoardo Festa punta a combattere l’abuso di mail con una chat professionale per condividere file e conversazioni con i propri contatti. Wiman invece aiuta a connettere l’utente tramite le milioni di reti wi-fi presenti in giro per il mondo, sfruttando la rete migliore (con esperienza simile al 4G). Con GiPStech sarà possibile effettuare la geolocalizzazione in ambienti chiusi anche anche lì dove non è in grado di arrivare il Gps. Kjuicer infine sviluppa un software in grado di soddisfare l’esigenza di realizzare riassunti e sommari di testi, a diversi livelli di approfondimento, a partire da un’unica sottolineatura e salvabili in un unico documento dinamico.
Ma come possono ritagliarsi una fetta significativa di mercato queste startup? «È sempre difficile fare un paragone tra le startup italiane e quelle straniere – conclude Mainetti – ma ritengo che le società che nascono dall’Italia, per avere ambizioni globali in questo settore, debbano proporre funzionalità innovative di nicchia. Per esempio rendendo il più possibile interoperabili gli spazi di lavoro fisici, o migliorare la qualità della vita delle persone. Perché anche questo è smart working».