La mia frase guida nel quotidiano è: “Non è finita, finché non è finita”. Non mi fermo mai di fronte alle difficoltà, trovo sempre una chiave positiva nelle complessità o nei momenti difficili e cerco di diffondere sempre la speranza e gli stimoli per uscire dal guado in modo non convenzionale. Questa mia attitudine deriva dalle tante esperienze fatte in mare, da capitano di barche a vela, dove ho collezionato esperienze in cui questo atteggiamento mi hanno spesso tirato fuori da guai.”
Capisco, caro Emanuel Ingrao. Come mai un capitano di barche a vela decide, quasi tre anni fa, di fondare e guidare una startup innovativa come la sua Shifton?
“Fondando la mia società volevo aggregare intelligenze “fini” e realizzare progetti che avrebbero cambiato in meglio la vita delle persone e avere un impatto positivo sulle persone e sulla società.”
Un obiettivo condiviso in questo blog, che ospita spesso il racconto di tentativi orientati in questa direzione. Per capire meglio, nel vostro sito scrivete che Shifton è uno studio avanzato di design per l’innovazione sociale. Traduzione? Perché “studio”?
“Perché lo studio è un luogo di ricerca e esplorazione transdisciplinare. Infatti noi abbiamo una pluralità di competenze nel team: dal Design, all’economia, alla filosofia, alla comunicazione, all’arte, agli esperti di nuovi modelli di business.”
Questo crogiuolo di competenze trova il suo punto di caduta nel metodo del design?
“Attraverso il design generiamo soluzioni innovative per rispondere ai bisogni delle persone e delle comunità. I processi di lavoro interni e esterni sono scanditi dai rituali del design thinking e sono orientati alla costruzione di relazioni di fiducia e collaborazione.”
I “rituali del desing thinking” rimanda a qualcosa di misterioso, quasi di esoterico…
“…Non vi è nulla di misterioso. Come lei sa bene, il design thinking è semplicemente un approccio che parte da un cambio di prospettiva rispetto al passato, in termini di mentalità, processi e strumenti. I nostri progetti prevedono l’attivazione di una trasformazione culturale, una rottura degli schemi conosciuti, che mettono al centro la persona e le comunità nelle quali ci troviamo a intervenire.”
Niente come la tecnologia aiuta a mettere al centro le persone. Che ruolo ha la tecnologia in quello che fate?
“Innovare per Shifton non è semplicemente usare la tecnologia. Per noi innovare è scoprire i bisogni delle persone e ideare soluzioni ‘fuori dal comune’ per soddisfarli. La tecnologia è un abilitatore delle soluzioni ideate tenendo al centro l’essere umano con i suoi bisogni. Terminato questo processo che parte dall’uomo, la tecnologia diventa un importante, a volte necessario, abilitatore. Essa ci consente di potenziare ancora più le soluzioni ideate e di migliorarle nel tempo. Shifton è profit with purpose, perché agli obiettivi economici unisce la generazione di impatto sociale. Anche tramite la tecnologia.”
Sembra quasi che lei un po’ snobbi la tecnologia. Eppure, siamo nell’era digitale…
“Guardi, ho lavorato per dieci anni in una società partner di IBM, occupandomi di innovazione tecnologica e di processo…Si tratta solo di equilibrio e di saper utilizzare gli strumenti giusti e adeguati alla singola situazione. Grazie alla tecnologia abbiamo ideato indumenti intelligenti, dotati di circuiteria e sensoristica e capaci di migliorare la qualità della vita di categorie fragili, come gli anziani in decadimento cognitivo. Nel 2022 testeremo i prototipi. Allo stesso modo, nella nostra formazione aziendale ci basiamo su strumenti collaborativi on line e off line. Cerchiamo di immaginare gli scenari che potranno prendere forma, per capire come andare ad agire e cosa serve nello specifico alle persone che fanno parte di un’organizzazione. Senza dogmatismo digitale.”
Capisco. Del resto, proprio la tecnologia è lo strumento decisivo per limitare le difficoltà anche lavorative delle persone con disabilità….
“… Lo scenario desiderato è lavorare in un’azienda totalmente inclusiva in cui notare il talento delle persone, prima di vedere i loro limiti o le loro diversità.
Per fare ciò bisogna agire sulla cultura in azienda: sui processi di reclutamento, sulla misurazione del lavoro (non solo quantitativo e legato alle performance) sui rituali, e sul linguaggio interno. Tutto questo attiva la trasformazione e la mantiene nel tempo cambiando le abitudini delle persone, il modo di pensare e quindi di agire. Così cambia la cultura rispetto ad un tema specifico, in questo caso ‘l’abilità differente’.”
Tutto molto interessante e “bello”. Non rischia però di essere una velleità, una ricerca di qualcosa che non si può ottenere?
“La nostra esperienza dimostra di no.”
In che senso?
Usando quel metodo abbiamo messo a terra progetti completamente diversi tra loro: rigenerazione urbana e risignificazione dei luoghi, trasformazione culturale per grandi aziende e ha sempre funzionato.”
Davvero?
“Davvero. Abbiamo progettato la trasformazione degli spazi del carcere di San Vittore, affinché si potessero attivare servizi e funzioni nuove, per migliorare la qualità della vita di chi vive e lavora al suo interno, proprio partendo dai bisogni di agenti di polizia e detenuti. Oppure, sempre a Milano, abbiamo ideato e avviato l’Adriano Community Center: un modello di integrazione unico, innovativo a livello nazionale e internazionale, tra uno spazio dedicato a residenza sanitaria assistenziale (RSA) e un community hub. Un luogo di cultura, socialità, innovazione, aperto allo scambio tra le generazioni, connesso al quartiere e alle sue comunità. Il nostro è un modello integrato che tiene insieme uno spazio di cura (RSA) e un innovation hub con servizi di formativi innovativi rivolti alle nuove generazioni.”
Dato che lei è così appassionato di futuro, se dovesse dire un bisogno che vede centrale e decisivo nell’immediato e attualmente sottovalutato, su cosa punterebbe?
“Il tema è quello dell’innovazione organizzativa e dei nuovi modi di lavorare. Le aziende e il loro modo di lavorare all’interno non potranno più essere gli stessi di prima. Devono diventare più agili, più rapide, meno verticali e acquisire metodi, strumenti e modelli che consentano loro di modificarsi rapidamente.”
Il cambiamento passa inevitabilmente dalle persone….
“È proprio così! Il cambiamento riguarda chi dirige e coinvolge come lavorare sulle persone: come trovare e mantenere i talenti? Come garantire un employees experience sempre più d’impatto, sempre più empatica? Come tenere insieme le diverse generazioni? Come trasferire nuovi modelli di leadership sulle skill richieste nei prossimi 10 anni?”
Grandi domande, questioni ineluttabili, che la pandemia ha fatto venire alla ribalta, accelerando un processo che era comunque avviato…
“Certo. Per questo dovranno essere pensati in modo diverso i servizi rivolti ai dipendenti, si dovranno adottare rituali per cambiare le abitudini e in ultimo anche la concezione di nuovi spazi di lavoro, per renderli più umani, empatici, ispiranti e funzionali ai bisogni delle persone che lavorano. E su questo punto siamo convinti che l’arte e il design possano avere un ruolo fondamentale all’interno delle organizzazioni come una delle chiavi per generare bellezza e benessere.”
Generare bellezza e benessere mi sembra un programma molto ambizioso…
“Se mi immagino l’azienda del futuro mi immagino l’Art Manager, un professionista in grado di studiare e declinare l’arte e il design in tutte le sue forme e i suoi linguaggi, in coerenza con le finalità dell’azienda che rappresenta. Lo scopo è generare senso, semplificare l’interpretazione di concetti, generare bellezza, benessere e ispirare ogni giorno e distinguersi, usando un linguaggio che integra anche arte e design. Stiamo facendo molta ricerca in quest’ambito. Vogliamo progettare dei modelli di riferimento e delle figure professionali che le aziende potranno adottare o utilizzare in modo proficuo rispetto al loro business.”