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Sharing economy, tutte le parole per dirlo

Economia collaborativa, servizi on demand, rental economy, economia peer-to-peer: sono vari modi di descrivere il fenomeno “economia della condivisione”. Ma le startup riunite sotto questo cappello sono diverse tra loro, perciò è utile analizzare i termini usati per descriverle. Eccone un elenco

Pubblicato il 23 Mar 2016

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La piattaforma per la raccolta fondi Kickstarter può essere classificata come economia collaborativa, Uber è quasi certamente economia on-demand ma anche rental economy, così come è rental economy AirBnb, mentre eBay è molto probabilmente consumo collaborativo (concetto lievemente diverso dall’economia collaborativa di cui sopra). Sono definizioni, o meglio tentativi di definizione, che scaturiscono tutti da un’unica, grande matrice: la sharing economy o economia della condivisione. Un termine con il quale negli ultimi anni si tende a classificare un po’ tutto, da una società che consente di chiamare auto a noleggio da smartphone quale la miliardaria Uber, a un colosso dell’e-commerce come eBay. Realtà che però, persino a uno sguardo superficiale, appiaono molto diverse tra loro per natura, attività e modalità di operazioni. La necessità di capire cosa è esattamente sharing economy è rimersa di recente in Italia dopo che, il 2 marzo, alcuni deputati dell’Intergruppo Parlamentare per l’Innovazione Tecnologica hanno presentato una proposta di legge per regolamentare questo settore. Uno dei punti fondamentali della proposta è la definizione stessa di sharing economy. Il testo recita: è un’economia “generata dall’allocazione ottimizzata e condivisa delle risorse di spazio, tempo, beni e servizi tramite piattaforme digitali” i cui gestori “agiscono da abilitatori mettendo in contatto gli utenti e possono offrire servizi di valore aggiunto”; inoltre “tra gestori e utenti non sussiste alcun rapporto di lavoro subordinato”.

In realtà la definizione esatta di sharing economy resta a tutt’oggi una questione aperta e fonte di dibattito a livello internazionale, perché il fenomeno è recente, in forte espansione e, potremmo dire, ancora fluido.

Sharing economy, cosa è (e perché è difficile dire cosa è)

Come se non bastasse, si sono sviluppate una varietà di definizioni parallele e/o sottodefinizioni: da “peer-to-peer economy” a “economia collaborativa”, da “economia on-demand” a “consumo collaborativo”. Proprio per riuscire a capire meglio cosa è la sharing economy è necessario partire da queste-definizioni, in modo da circoscrivere il campo di azione. Si scopre così che effettivamente Uber rientra in un campo diverso da quello di eBay. E che magari il concetto di “condivisione” come volontà di compartecipazione reciproca e gratuita di beni e servizi non si attaglia né all’una né all’altra realtà. Ma ci sono molte altre società genericamente inserite sotto il cappello della sharing economy le cui dinamiche di mercato possono risultare di più chiara comprensione se collocate nella casella giusta. Vediamo dunque le varie definizioni emerse in questi anni.

Economia collaborativa o collaborative economyL’economia collaborativa consiste nelle iniziative basate sui network orizzontali e sulla partecipazione di una comunità. A fornire questa definizione è Ouishare, comunità internazionale scaturita dagli incontri risalenti al 2011 tra un gruppo di entusiasti dell’economia collaborativa a Parigi, la cui missione è costruire e alimentare una società collaborativa. Le comunità che si muovono in modalità di economia collaborativa – sostiene ancora Ouishare – si incontrano e interagiscono su network online e su piattaforme peer-to-peer, ma anche in spazi condivisi come fablab e co-working.

Una spiegazione di cos’è l’economia collaborativa la dà anche Jeremiah Owyang, americano di origine asiatica, analista, oratore e fondatore di Crowd Companies, società che aiuta le grandi aziende ad affrontare e gestire proprio la collaborative economy. La sua definizione è: “L’economia collaborativa mette in grado le persone di ottenere quello che desiderano l’una dall’altra”. L’esempio scelto è quello dell’alveare: “Similmente, in natura, gli alveari sono strutture resistenti che consentono l’accesso, la condivisione e la crescita di risorse all’interno di un gruppo comune. L’ultima versione di questo quadro, l’alveare 3.0, mostra come l’economia collaborativa sia un mercato che è cresciuto fino a includere nuove applicazioni nei dati, nella reputation, nel supporto ai lavoratori, nei servizi alla mobilità e nel settore Beauty”.

L’americana Rachel Botsman, nota per il suo pensiero sul potere della collaborazione e della condivisione tramite l’utilizzo della tecnologia, sottolinea che l’economia collaborativa è costruita su “potere e fiducia all’interno delle comunità in opposizione alle istituzioni centralizzate”. In questo modo si confondono i confini tra produttore e consumatore. In particolare ecco la sua definizione: “È un sistema economico di reti e marketplace decentralizzati che sblocca il valore di beni sottoutilizzati combinando ciò di cui si ha bisogno e ciò che si possiede in un modo che bypassa i tradizionali intermediari”. Tra gli esempi di economia collaborativa, Botsman cita Kickstarter, piattaforma di crowdfunding che consente la raccolta in Rete di donazioni a favore di progetti. Altro esempio è LendingClub, la prima piattaforma di prestito online tra i privati nata negli Usa e diventata la più importante società del settore. Il mese scorso LendingClub, che che vede tra i propri soci anche l’ex ministro del Tesoro Usa, Larry Summers, è crollata da una capitalizzazione di oltre dieci miliardi di dollari ai tre miliardi attuali a causa, sembra, dell’insolvenza dei debitori. In questo contesto, però, interessa solo sapere dove classificarla. Ed è stata appunto inserita nella casella “collaborative economy” insieme alle altre piattaforme di person-to-person banking. Tra gli esempi citati da Botsman c’è poi TransferWise (pagamenti internazionali); Etsy, sito web dedicato all’e-commerce, all’interno del quale gli iscritti possono vendere prodotti artigianali oppure oggetti vintage; Vandebron, startup olandese che fornisce un marketplace diretto tra aziende locali che generano energia pulita e proprietari di case e negozi che ricercano fonti di energie rinnovabili a basso costo. Altra società citata: Quirky, startup che però nel frattempo è deceduta. Era una piattaforma dove si potevano votare le invenzioni da finanziare in modalità collettiva. Altro esempio: Taskrabbit, marketplace che permette di far incontrare domanda di servizi e offerta di lavoro. I compiti che si possono assegnare spaziano da fare la spesa a ritirare i vestiti in lavanderia, da pulire la casa a montare i mobili Ikea.

Consumo collaborativo – La già citata Rachel Botsman ha scritto un libro intitolato “What’s Mine is Yours: How Collaborative Consumption is Changing the Way We Live” (Harper Collins, 2010), perciò è considerata una delle principali portavoci di questo modello economico a livello internazionale. Questa la sua definizione di collaborative consumption: “La re-invenzione di comportamenti tradizionali di mercato – affittare, prestare, scambiare, condividere, barattare, donare – attraverso la tecnologia, che si verificano in modi e su scale non possibili prima dell’era di Internet”. Esempi: Zopa, la più grande società europea di prestiti peer-to-peer; Zipcar, company americana di car-sharing; Yerdle, piattaforma di scambio per cose usate; Getable, piattaforma per il noleggio di strumentazione; ThredUp, compravendita di vestiti online; Freecycle, progetto di riutilizzo dei beni attravrso il dono di ciò che può essere riutilizzato; e infine la succitata eBay.

Servizi on demand (on-demand services) o economia on demand – Si tratta delle piattaforme che fanno incontrare in modo diretto le esigenze dei consumatori con coloro che le possono soddisfare attraverso l’immediata consegna di beni e servizi. Come scrive l’Economist in questo articolo, all’inizio del 20esimo secolo Henry Ford combinò la catena di montaggio con la forza lavoro per poter costruire automobili molto più economiche e veloci, in modo da rendere l’auto non più un giocattolo per ricchi ma un mezzo di trasporto per le masse. Oggi un crescente gruppo di imprenditori sta cercando di fare lo stesso con i servizi, mettendo insieme il potere dei computer con i lavoratori freelance per fornire beni di lusso che un tempo erano destinati solo ai più abbienti. A questo proposito l’Economist cita la solita Uber, che mette a disposizione autisti con berlina, ma anche Handy, startup americana che fornisce personale per le pulizie, e SpoonRocket, che consegna pasti a domicilio: “Un giovane programmatore di San Francisco potrebbe già vivere come un principe utilizzando questi servizi” annota l’autore dell’articolo. Ma elenca anche startup che rientrano nei servizi on-demand senza per questo avere a che fare col lusso: per esempio Medicast, applicazione per chiamare un medico a domicilio, o Axiom, che fornisce legali e consulenti.

Rental economy – Il termine “rental economy” è stato usato soprattutto negli anni 2013 e 2014, come sinonimo di sharing economy, dal quale è stato poi in parte soppiantato. Ovviamente in questo caso specifico si vuole sottolineare il concetto di “rent”, “dare o prendere in affitto o a noleggio”. Di conseguenza le startup della rental economy sono individuate soprattutto in Uber ma anche in AirBnb, la piattaforma internazionale che consente di affittare appartamenti o case di privati per periodi temporanei. Come hanno scritto gli esperti di marketing del ConvergEx Group, “rent is becoming the new ‘own’”, “il concetto di affitto sta diventando il nuovo ‘è di mia proprietà’”. Negli Stati Uniti, in particolare, la proprietà – della casa, della macchina o di altri beni – sta cedendo il passo al fenomeno dell’affitto condiviso. Questo perché, spiegano gli esperti, “prendere in affitto e condividere ci permette di vivere la vita che vogliamo senza effettuare spese al di sopra delle nostre possibilità”.

Economia peer-to-peer o Peer-to-Peer (P2P) Economy – Il termine è stato coniato da Michel Bauwens, teorico, scrittore e ricercatore belga, classe 1958, che ha poi dato vita alla Foundation for Peer-to-Peer. Da anni sta dedicando la sua vita alla diffusione della conoscenza intorno alle pratiche peer-to-peer e alla crescita della economia della condivisione. La definizione è spesso usata in parallelo con quella di sharing economy. L’approccio di Bowens appare più macro-economico e meno legato ad esempi pratici, a differenza dell’americana Botsman, che segue una metodologia più pragmatica. Per Bowens la Peer-to-Peer Economy è un modello decentralizzato dove individui interagiscono per comprare o vendere beni e servizi direttamente l’uno con l’altro, senza intermediazione di una terza parte, o senza l’uso di un’azienda. Il compratore e il venditore eseguono le transazioni direttamente l’uno con l’altro. A causa di questo il produttore possiede sia gli strumenti (o mezzi di produzione) sia il prodotto finito. Bowens ritiene che questa forma economica rappresenti un’alternativa al tradizionale capitalismo, dove i proprietari dell’azienda possiedono i mezzi di produzione e anche il prodotto finito, e assumono forza lavoro per portare avanti il processo di produzione. Tra gli esempi di economia peer-to-peer, Bowens cita il modello di Curto Café di Niteroi, nello Stato di Rio de Janeiro: una comunità che si propone di produrre del caffè di qualità senza sfruttare i produttori primari ed essere allo stesso tempo sostenibile. È una comunità non gerarchica, senza uno staff permanente, ha sostituito i costosi certificati fair trade con una catena produttiva aperta, condivide pubblicamente la ricerca sulla composizione dei prodotti e le prenotazioni, utilizza il crowdfunding per espandere la distribuzione e modifica, hackerandole, le macchinette del caffé per permettere di accogliere anche altri tipi di capsule. Un altro modello interessante citato da Bowens è Wikispeed, società dell’automotive fondata a Seattle, Washington: ha inventato un metodo di manifattura estremo, che permette di rilasciare un differente design per automobili ogni settimana (attraverso lo sviluppo parallelo dell’open design) e produrre l’automobile all’interno di micro-fabbriche.

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