È da un po’ che alla domanda “che cosa serve alla ricerca e alle imprese, nel nostro territorio?”, rispondo generando probabilmente pensieri del tipo: “Ma con tutto quello che ci sarebbe da fare, questo pensa alla comunicazione?!?”. Eppure, ne resto convinto: con la piena consapevolezza che tanto altro ci sia effettivamente da fare, ritengo che il gap più ampio, con i contesti a cui ispirarsi, sia nel promuovere un approccio strutturato alla comunicazione.
Tantissimi soggetti lavorano a livelli di pura eccellenza, comunicando una piccola percentuale di ciò che dovrebbero. Altri abbozzano forme di comunicazione, totalmente destrutturate, che rischiano di essere addirittura più dannose che altro. Altri ancora, invece, partono proprio dalla comunicazione, investendo risorse più che nel prodotto, spesso debole o non particolarmente differenziato: affidano proprio allo storytelling e ai canali di distribuzione l’onere del posizionamento e della competizione sul mercato.
Ricerca e comunicazione, che cosa serve
Ho sperimentato, nel percorso da startupper e da ricercatore, che chiedere di comunicare ad un tecnico o ad un uomo di scienza è spesso complesso come chiedere di fare scoperte scientifiche ad un comunicatore (fermo restando il fatto che possano esserci eccezioni professionali capaci realmente di fare ambo le cose). Sensibilizzare al fatto che la comunicazione sia cruciale, quanto lo sviluppo stesso di ciò che è oggetto di comunicazione, significa investire in tale direzione, attrarre professionalità, far sviluppare una cultura ed una dialettica che ci consentano di competere (non per competizione ma per competitività) con contesti nazionali ed internazionali che manifestano maturità e profonda dimestichezza con forme di espressione contemporanee, che siano digitali o no.
Non bastano i social e la digitalizzazione
Intendiamoci, qui non si parla di digitalizzazione, di gestire opportunamente i social media o di mettere a punto strategie che portino semplicemente più visibilità: su tutto ciò dovrebbe esserci sufficiente consapevolezza. E non si tratta di emulare le strategie dei colossi industriali, che investono cifre a 9 zeri nell’interazione con i media, generando tendenze ed influenzando sapientemente mercati ed utenti. Il punto è che in un Paese in cui la piccola e media impresa assorbe circa l’80% della forza lavoro e contribuisce per oltre il 50% alla produzione nazionale, ed in un mercato in cui l’ultimo anno ha sconvolto i concetti di prossimità e distanza, il potenziamento della dialettica, dello storytelling e dell’utilizzo di opportuni strumenti espressivi, può probabilmente essere l’elemento di svolta nel recuperare un gap economico che non è solo risultato della carenza di opportune politiche fiscali e di investimenti in ricerca.
Trasferimento tecnologico, eccellenze con poca visibilità
Il contesto degli spin-off accademici, e in senso più ampio del trasferimento tecnologico, che ho avuto modo negli ultimi anni di conoscere dall’interno, ci parla di un importante potenziale economico, spesso caratterizzato da una sproporzione tra l’investimento in sviluppo tecnologico e quello nella comunicazione di quest’ultimo. Al contempo, in un’epoca di grande riscoperta del valore dell’handmade, occorre probabilmente proiettare su scala globale la visibilità di eccellenze troppo spesso poco note, ma dall’immenso potenziale. Il grande pivot può essere dunque nelle nicchie di mercato, siano esse scientifico/tecnologiche o manifatturiere. Favorire il dialogo con players che supportino la diffusione di comunicati su scala internazionale, sviluppare un concept di posizionamento chiaro, costruire forme di espressione con un “tone of voice” coerente… aspetti che se opportunamente messi a sistema, ed in parallelo con prodotti validi e tecnologie d’avanguardia, possono far ritrovare ed espandere fatturato e network commerciale.
Il target di questo lavoro di “disseminazione” non sono probabilmente solo imprenditori e ricercatori. Ce lo ripetiamo ormai da tempo… le soft skill vanno sviluppate fin dai banchi di scuola e dalle aule universitarie. Occorre che la generazione digitale cresca con una piena competenza del potenziale derivante dal comunicare con criterio. In un’epoca di uso ed abuso di social, che parrebbero garantire democraticamente a tutti il potere di farsi ascoltare, il rischio tangibile è quello di abbandonarsi a forme di espressione anarchiche, anche nell’ambito della comunicazione istituzionale, scientifica ed aziendale, perdendo di vista i processi che un’accorta strategia e un ben strutturato piano editoriale richiedono e che possono portare a contenuti di qualità. Che poi significa soprattutto efficaci.
Perché non incentivare gli investimenti in comunicazione?
Così come negli ultimi 5 anni, per stimolare la cultura d’impresa ed il trasferimento tecnologico dalle attività di ricerca alla creazione di valore di mercato, si sono destinate importanti risorse e sovvenzioni orientate allo sviluppo di progetti R&D, sarebbe interessante se il prossimo quinquennio vedesse la nascita di una nuova, parallela, linea di investimenti.
La percezione, purtroppo, è ancora che le risorse da destinare alle attività di comunicazione (e di marketing, che pur essendo qualcosa di diverso viene spesso considerato al suo fianco in un indissolubile binomio) siano “quel che avanza” dalla gestione operativa. Per scalfire questa poco lungimirante tendenza, occorre forse favorire, almeno per una prima volta, un investimento in tali funzioni apparentemente accessorie. Ne beneficerà probabilmente chi comunica, crescendo in reputazione e visibilità. Ne beneficeranno ovviamente professionisti ed enti a cui il “comunicante” si rivolgerà. Ne beneficerà il sistema, nel medio periodo, forte di una maturazione e di un rinnovato impatto verso l’esterno.
Fornito lo spunto iniziale, non sarà probabilmente più necessario rincarare alcuna dose: chi inizia a comunicare ed a supportare la narrazione del proprio business in contesti internazionali, non torna più indietro, che sia per un effettivo incremento delle vendite (che gli attuali strumenti digitali consentono di misurare con buona precisione nella maggior parte dei business), che sia per vezzo, o che sia per il valore derivante dal diventare entità titolata ad esprimersi nel proprio settore.