Made in Italy

Perché siamo in ritardo con l’internazionalizzazione

La settimana prossima gli Incontri di Economyup a Torino e a Padova. Ad aprirli sarà il professore Fabio Sdogati che qui ci anticipa il modo corretto di “leggere” la globalizzazione e le ragioni di un ritardo storico. Che può essere recuperato grazie alla tecnologia.

Pubblicato il 22 Gen 2014

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Internazionalizzarsi per crescere è il titolo degli eventi a porte chiuse che EconomyUp.it organizza con Ict4Executive a Torino (il 27 gennaio) e a Padova (il 30). Entrambi si apriranno con uno speech di di Fabio Sdogati, professore di Economia Internazionale al Politecnico di Milano e docente dei Master del Mip. Agli incontri parteciperanno AFB Net e HT High Technology a Torino e Tecla ed Horsa a Padova. La partecipazione ai due eventi è solo su invito, che può essere richiesto alla segreteria organizzativa: alessia.valsecchi@ict4executive.it

L’internazionalizzazione delle imprese non avviene soltanto nella modalità ‘esportazione’. Le imprese esportano, importano, investono, forniscono e comprano semilavorati e prodotti intermedi da tutto il mondo, intrattengono relazioni finanziarie con altri Paesi, con i propri fornitori, con le banche….

Esiste un ampio corpo di letteratura economica, sia teorica che empirica, che evidenzia come il grado di competitività internazionale delle imprese sia positivamente correlato con il loro grado di internazionalizzazione (e viceversa).

Le imprese di maggior successo sembrano essere quelle che si sono ‘spogliate’ delle fasi di produzione meno efficienti affidandosi alla fornitura di imprese più efficienti in quella particolare fase produttiva: e poco importa che il fornitore sia nazionale o estero. Un esempio? La Germania. Le esportazioni tedesche sono composte per il 50% circa di semilavorati e intermedi, così come lo sono le importazioni. In breve: è fuorviante dire “la Germania esporta automobili”, ma è corretto dire che la Germania esporta automobili assemblate in Germania da semilavorati intermedi prodotti altrove, probabilmente con macchinari tedeschi in parte provenienti da altri paesi!

Pensare la globalizzazione in maniera corretta, e non in termini di ‘delocalizzazione’, consente di apprezzare il ruolo dell’ICT nei processi di espansione delle catene di produzione: si pensi a quale complessità raggiungono la gestione della logistica globale, della supply chain, etc. L’ICT è lo strumento che consente alle imprese di andare a ‘prendere’ le competenze, le risorse fisiche e i mercati più di qualunque altro strumento esse abbiano a disposizione. Ma l’ICT è non solo facilitatore di questo processo, ne è anche abilitatore e stimolatore.

Come mai la scoperta che le imprese italiane sono raramente in grado di competere sul mercato globale ha traumatizzato tanti? Beh, semplice: perché queste persone, imprenditori, manager, economisti, non si sono presi la briga di comparare la cultura manageriale e imprenditoriale italiana degli ultimi sessanta anni con quella della globalizzazione imperante. La nostra cultura anti-globalizzazione viene da lontano, in particolare da quella ideologia nazionalista che consenti alle imprese italiane di operare al riparo dalla concorrenza internazionale – e allo stesso tempo consentì loro di non crescere nella misura in cui veniva loro negato, dal regime, l’accesso al mercato globale. Viene da quel lungo periodo postbellico, che alcuni chiamano ‘del miracolo economico’ ed io ‘gli anni dell’orgoglio’ durante i quali proprietà e management non avevano bisogno di investire in ricerca, sviluppo, innovazione, macchinario, perché c’era chi provvedeva a tenere il costo del lavoro talmente basso che le nostre merci, prodotte in gran parte con metodi ad alto contenuto di lavoro non qualificato, godevano comunque di competitività internazionale di prezzo. E infine venne la terza fase, quella in cui il costo del lavoro crescente veniva neutralizzato non da progresso tecnico, ricerca, sviluppo, innovazione, bensì da svalutazioni ricorrenti, sistematiche, dal 1973 al 1996. E quando le svalutazioni non furono più possibili i nodi, come si usa dire, vennero al pettine.

* Fabio Sdogati è Ordinario di Economia Internazionale e Politecnico di Milano e Direttore dei programmi Executive Education del Mip School of Management

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