Perché per le grandi aziende, soprattutto in Europa, è difficile comprare startup?
La settimana scorsa sono stato invitato a parlare a Londra al “Mergermarket Corporate Development Forum Europe 2023”, uno dei principali eventi in tema di M&A (qui il resoconto della giornata fatto da Rupert Cocke e Rachel Lewis).
Merger and acquisition, l’angolo delle startup
Mi era stato chiesto di portare l’angolo delle startup. Perché?
Perché, se comprare una startup è tecnicamente la stessa cosa che comprare una azienda established, culturalmente rappresenta per una grande impresa un salto quantico.
Parto con dei dati di contesto: dall’ultimo report di Mind the Bridge “Evolve of Be Extinct – Open Innovation Models for the Future” emerge chiaramente come le aziende europee non siano particolarmente “acquisitive” sul fronte delle startup.
Mentre Google e Facebook comprano startup con frequenza quasi settimanale, le grandi imprese del Vecchio Continente si limitano a poche operazioni all’anno (e bastano le dita di una mano per contarle).
Alberto Onetti a Londra intervistato on stage da Rupert Cocke
Comprare startup e le tradizionali metriche di valutazione
Perché comprare una startup manda in crisi le tradizionali metriche di valutazione. In poche parole, non si riesce a giustificare il prezzo pagato.
Provo a spiegarmi.
Nella giornata un punto ricorrente di discussione è stato il rallentamento delle attività di M&A dovuto alla grande incertezza di mercato. Incertezza porta volatilità. E la volatilità rende difficile “forecasting the results of the target companies”. E questa aleatorietà tende a frenare le acquisizioni.
Nel caso delle startup la situazione di incertezza dei risultati è strutturale. Per provare a visualizzarla ho ripreso le parole dell’ex US Secretary of State Rumfeld che era solito distinguere tra “known unknowns” e “unknown unknowns”.
Qualunque acquisizione è esposta ad alcuni know unknows. Però le aziende consolidate hanno una storia di risultati e quindi una certa continuità tra passato e futuro. Questo consente di applicare nella loro valutazione multipli, più alti sui risultati storici (“trailing”), più bassi su quelli prospettici (“forward”).
Una situazione di maggiore incertezza può aumentare la forchetta, ma non pregiudica i criteri.
Le startups sono invece un mondo a parte. Giocano nella “unknown unknowns league”.
Quando si compra una startup, si compra futuro
Quando si compra una startup, non si sta comprando mercato o un’estensione di quello che si fa. Si compra futuro, un modo diverso di fare le cose. Il passato e il presente conta poco. I numeri che li rappresentano sono perciò poco o nulla significativi. Quello che stai comprando deve ancora succedere. Per questo multipli e tradizionali criteri di valutazione non hanno cittadinanza qui.
Per quanto il ragionamento possa sembrare ai limiti dell’ovvio, per la grande azienda resta dannatamente difficile. Perché il prezzo pagato è difficilmente giustificabile. Ed espone a dubbi di compliance (“avete pagato troppo una azienda che aveva numeri modesti”) o comunque di avere fatto una scelta rischiosa in un mondo ove l’omission bias è di casa (“non capiamo il perché di questa scelta”).
Qualche esempio sulle difficoltà delle grandi aziende
Un po’ di esempi possono aiutare a comprendere la situazione.
- Una grande azienda nel comparto finanziario ha impiegato quasi due anni per comprare una startup ad un prezzo inferiore ai dieci milioni per quanto centrale per l’implementazione delle proprie strategie. Motivo? L’Ebitda negativo non giustificava il prezzo pagato.
- Un’altra grande azienda ci ha commissionato un’analisi dei multipli applicati alle acquisizioni di startup. L’outcome (derivante dall’analisi di migliaia di M&A transactions con disclosed amounts) è una gigantesca varianza. Perché tale analisi? Per avere agli atti uno studio di una terza parte qualificata per poter giustificare una valutazione non spiegabile con i criteri tradizionali.
- Un energy company ha “accusato” il proprio fondo di CVC di avere contribuito ad alzare il prezzo pagato nell’acquisizione di una portfolio company. Ho impiegato tanto a spiegare che l’aumento della valutazione era legato alla riduzione del rischio dell’azienda, quindi fattore positivo per l’acquirente.
La morale è che le grandi aziende fanno fatica a percepire il tempo. Non hanno in genere un senso di urgenza, agiscono come se avessero tutto il tempo del mondo. Come se la loro storia le garantisse un futuro parimenti lungo.
Nella realtà non è così. C’è una lama che oscilla sopra le teste di tutti che si chiama “disruption”. Prima o poi, è destinata a cadere. E il passato non fornisce protezione alcuna qui.
Solo le scelte coraggiose, per quanto difficili da giustificare, possono garantire un futuro. Scordatevi l’Ebidta se vorrete continuare a generarlo anche nei prossimi anni.