Sono giorni decisi per l’app anticoronavirus, l’applicazione che dovrebbe essere presto utilizzata anche in Italia per tracciare attraverso lo smartphone i movimenti e i contatti e contenere così la pandemia.
C’è solo una possibilità, a breve, per uscire di casa, per far ripartire il sistema produttivo italiano paralizzato dal coronavirus ed è tutta basata sull’uso intelligente e massivo della tecnologia: raccogliere quante più informazioni possibili su chi è contagiato e chi no per avviare un progressivo ritorno alla normalità come, per esempio, propone il sindaco di Milano Giuseppe Sala: prima la selezione anagrafica (i giovani che sono meno a rischio degli anziani), poi quella basata sul livello di immumità (se sono sano e anche non contagioso perché restare in quarantena?).
Variabile anagrafica e variabile sanitaria, quindi: una miriade di dati che dovranno essere raccolti e gestiti, e non solo a Milano. Visto che nessuno pensa di poterlo fare con l’ennesimo modulo cartaceo di autodichiarazione (o almeno questo è l’augurio), avanza l’idea di un’app, un’app anticoronavirus, che dovrebbe raccogliere le informazioni di chi va in giro e tracciarne i movimenti per ricostruire i contatti in caso di contagio e bloccarne la diffusione.
Di che cosa stiamo parlando quando si parla di un’app per tenere sotto controllo lo stato di salute e i movimenti dei cittadini? Quali sono gli obiettivi, i rischi e i limiti? Per trovare le riposte ho chiesto aiuto al professore Stefano Piotto, docente di chimica e biomateriali alla Facoltà di Farmacia dell’Università di Salerno, CEO e cofondatore di SoftMining, uno spinf-off accademico lanciato nel 2019 per applicare l’intelligenza artificiale alla ricerca di farmaci antitumorali. Una startup, partecipata da Digital Magics, che lavora abitualmente con algoritmi e molecole. Di fronte al montare dell’emergenza coronavirus in Italia ha deciso di portare il suo contributo: dopo aver studiato quel che si stava già facendo in Corea del Sud, il team di sviluppatori e data scientist ha sviluppato con alcuni partner la SM covid19 App. Il progetto è stato offerto gratuitamente alle autorità sanitarie (altro è il business della società), a cui cederà anche i codici, e ha partecipato alla call “Innova per l’Italia”.
1. Perché serve un’app anticoronavirus
Si parla tanto di intelligenza artificiale contro il coronavirus. Viene già utilizzata nella ricerca del vaccino, può essere preziosa nella battaglia per il suo contenimento. Ma l’intelligenza artificiale funziona solo se ci sono i dati, moltissimi dati. L’app è lo strumento più adeguato e contemporaneo per raccogliere le informazioni in grado di distinguere chi è contagiato da chi è sano e di evitare la diffusione del virus. Del resto questo già accade, ad esempio, per la mobilità con le app dei servizi di car sharing o bike sharing, le cui informazioni (aggregate) hanno permesso al Comune di Milano di monitorare il calo del traffico nelle ultime settimane.
2. Come funziona un’app anticoronavirus
Non c’è un solo sistema e di solito si pensa alla geolocalizzazione, che però è la soluzione meno precisa in quanto il gps ha ampi margini di approssimazione, tra i 3 e 5 metri, e quindi non è affidabile per registrare un contatto fra persone. “Per la nostra app abbiamo utilizzato il bluetooth e il wifi”, spiega il professore Piotto. “Sono gli smartphone a parlarsi fra di loro (meglio se è un modello degli ultimi tre anni, ndr.). Il telefono è sempre con noi, ormai. Si accorge se ce n’è un altro vicino e mantiene l’informazione per 21 giorni. Così andiamo a monitorare il numero dei contatti, e la loro durata, che è un’informazione importante: se io sto vicino a una persona contagiata per 10 minuti è meno probabile che io mi ammali se invece mi fermo due ore”.
3. Quali Paesi usano un’app anticoronavirus
Il modello resta la Corea del Sud, che è stato il primo Paese con un regime democratico a fare un uso massivo degli strumenti digitali per contenere il contagio. Il caso più intensivo è invece quello cinese. Da qualche settimana però molti altri Paesi europei stanno testando diverse soluzioni. Qui trovate una rassegna dei principali casi.
Coronavirus, come gli altri Paesi usano i dati dello smartphone contro il contagio
4. A che punto siamo in Italia
Siamo nella fase di valutazione. Il Ministero dell’Innovazione, con il Ministero della Sanità, ha lanciato la call Innova per l’Italia. Adesso la ministra Paola Pisano ha di fronte una bella sfida: oltre 300 proposte arrivate da tutto il mondo e 60 esperti che dovranno valutarle. La selezione non sarà facile ma si spera sia veloce.
“Dobbiamo essere prudenti”, dice la Pisano (Corriere della Sera, 27 marzo), che avrà bisogno del sostegno di tutto il Governo. Per lanciare e in qualche modo “imporre” un’app che tiene sotto controllo i nostri contatti servirà una scelta politica forte, che può arrivare solo se si comprende quanto questa tessera sia fondamentale per fronteggiare sia l’emergenza sanitaria sia quella economica.
5. Il problema dell’adozione: quanti la useranno?
“Non bisogna pensare che l’app sia la soluzione di tutto”, dice sempre la ministra Paola Pisano. E ha ragione. “Bisogna testarla e valutare sopra quale soglia è statisticamente rilevante”. Che significa: l’app, qualsiasi venga scelta, dispiegherà i suoi effetti solo se sarà utilizzata dalla maggioranza della popolazione.
“C’è un problema di adozione”, osserva il professore Piotto. In Cina lo hanno superato con un approccio possibile solo in un regime forte, “embeddando” l’app con WeChat, il loro Whatsapp che è diffuso in tutte le fasce d’età. Che cosa succederà in un Paese come il nostro in cui tutti hanno il cellulare ma la maggioranza lo usa in maniera basica? Facile prevedere che sarà necessario pensare ad azioni decise di pressione e persuasione se si vorrà che l’app raggiunga livelli di diffusione significativi.
6. L’app anticoronavirus e la privacy
“Si parla molto di questa app che ci localizza per associare i nostri movimenti alle zone dove il rischio pandemico è più forte. È una violazione della privacy? Certo. Ha senso? Altrettanto certo”. Così il sindaco Sala ha sintetizzato la questione sulle pagine milanesi del Corriere della Sera.
È sterile oggi dividersi in favorevoli o contrari, tra seguaci di Orwell e puristi della privacy, dimenticando che siamo dentro una situazione drammaticamente straordinaria con oltre 9mila morti solo in italia (esattamente 9.134 alle 18 del 27 marzo) che richiedi scelte e interventi straordinari. Senza tenere conto delle ragioni etiche addotte, ad esempio, dal teologo Paolo Benanti.
“La nostra app comunque è rispettosa della privacy e a questo aspetto abbiamo dedicato molta attenzione”, spiega Stefano Piotto. “Per esempio, non utilizzando la geolocalizzazione non tracciamo i movimenti ma solo i contatti, le correlazioni fra le persone. Nessuna informazione viene salvata nei nostri server”. In ogni caso, qualunque sarà l’app scelta dal governo i dati dovranno essere gestiti da un soggetto pubblico (Protezione Civile? Ministero della Salute?) e cancellati dopo un periodo di tempo definito.
Siamo in un’emergenza epocale e ci verrà chiesto di fare qualcosa che già facciamo con Google o decine di altre app, spesso senza rendercene conto: condividere la nostra posizione, i siti che visitiamo, addirittura quel che diciamo. Perché non farlo se può servire a ridurre la pressione sul sistema sanitario, a salvare qualche vita umana e a tornare a lavorare?
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7. Perché l’app serve per tornare alla normalità
L’app non è (solo) una soluzione per ridurre la diffusione del virus e affrontare l’emergenza. Anzi, sarà molto più importante nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Ormai dovrebbe essere chiaro che dovremo imparare a convivere con il virus per 18/24 mesi, il tempo necessario perché il vaccino venga scoperto e somministrato a livello globale. L’emergenza magari passerà, ci saranno alti e bassi, ma fino a quel momento COVID-19 sarà sempre in agguato.
“Il monitoraggio sarà per questo fondamentale e per diverse ragioni”, dice Piotto. “Sapere se qualcuno è entrato in contatto con una persona positiva o se ha trascorso del tempo con qualcuno che ha avuto contatti con un contagiato ci permetterà di fare tamponi in modo più mirato. Ma anche di tornare a lavorare, perché se negli ultimi 21 giorni non ho avuto contatti “pericolosi” e sono sano, non corro alcun rischio e non sono pericoloso”.
Dopo il lock down, l’app sarà quindi decisiva per affrontare la fase 2. E per prepararci al prossimo virus. “Questa è la prova generale di un nuovo tipo di prevenzione che passa dall’intelligence artificiale e dalle tecnologie digitali”, conclude Piotto. “Questo è il primo caso di digital medicine, come ci ha dimostrato la Corea del Sud”