Marzo 2015. Le nostre ricerche sul Platform Thinking erano agli albori. Airbnb ed Uber erano già grandi brand nel mondo delle startup digitali, ma stavano diventando popolari per il grande pubblico solo in quei mesi.
Platform economy, l’evoluzione di un modello
Dall’Italia, farsi rilasciare un’intervista dai fondatori di queste aziende era sicuramente possibile, ma non probabile. Erano i mesi in cui tutti volevano parlare proprio con loro, al centro di quella che da lì a poco sarebbe stata battezzata come la “platform revolution”.
Non ci siamo persi d’animo, e in quegli anni abbiamo intervistato tantissime piattaforme, meno famose dei grandi colossi americani, ma assolutamente interessanti per quello che volevamo studiare all’epoca: le fasi e gli strumenti per lanciare in maniera efficace una piattaforma.
In quegli anni, trovare una startup a piattaforma non era per nulla difficile. Ogni giorno, su una qualunque rivista specializzata in business ed innovazione, era possibile trovare il caso di un nuovo Airbnb o di nuovo Uber, pronto a sconvolgere il mercato con il loro modello “asset-light”.
I limiti della platform economy: una storia esemplare
A distanza di un decennio, le notizie sui “nuovi Uber o Airbnb” sono molto più limitate. Non tanto perché le nuove startup non usino modelli a piattaforma, anzi. Più che altro, si è infranto il sogno che in quegli anni ha ammaliato molti: la possibilità di diventare grandi semplicemente identificando un “match” tra domanda e offerta sul mercato.
Cosa significa? Vediamolo con una breve storia.
“SkiShare” il “wannabe-Airbnb” degli sci
Qualche anno fa, degli studenti di un nostro corso, ci hanno presentato l’idea per una piattaforma: “SkiShare”. In poche parole: l’Airbnb degli sci.
Quanti di voi hanno un paio di sci in casa, che magari usano soltanto 2-3 volte l’anno? E quanti di voi vanno a sciare – 2-3 volte l’anno – affittando un paio di sci? Certamente molti di noi appartengono ad uno di questi due gruppi…ed è improbabile che quei 2-3 giorni, in circa 4-6 mesi di stagione sciistica, siano proprio gli stessi.
Ecco “SkiShare”, la piattaforma che permette agli appassionati di sci di affittarsi a vicenda gli sci, pagandoli meno di quanto farebbero in un normale noleggio di sci a fondo pista, e soprattutto evitando di passare minuti preziosi in coda, il sabato mattina, mentre il sole è già alto in cielo e potrebbero godersi la neve migliore della giornata.
Sembra un’idea geniale, no? Abbiamo un chiaro “match” sul mercato. Clienti che cercano. Clienti che offrono. Proprio come su Airbnb o su Uber.
Quest’idea, così come tante altre, non è venuta solo ai nostri studenti. Eppure, non conosciamo nessuno “SkiShare-like” che sia diventato grande e il motivo è molto semplice da identificare.
Lato domanda, questa idea può essere molto interessante. Non avendo gli sci e dovendoli affittare direttamente nella località sciistica, il cliente vive un problema molto chiaro: spendere una cifra relativamente importante, per affittare un bene molto diffuso, passando probabilmente un po’ di tempo in coda, quando quello stesso tempo potrebbe essere speso a sciare. Da qui, l’ipotesi di dedicare un poco di tempo, nei giorni precedenti alla partenza, per muoversi in città a recuperare un paio di sci, a un prezzo verosimilmente più basso, facilitati dall’app. Sembra assolutamente ragionevole.
Se guardiamo la stessa storia dal punto di vista dell’offerta, del possessore degli sci, il tutto appare molto meno affascinante. Il nostro possessore di sci, probabilmente, dovrebbe vincolare i suoi impegni settimanali in modo da essere a casa a un preciso orario di una sera qualsiasi in settimana per dare a uno sconosciuto i propri sci. E lo stesso, la settimana dopo, per ritirarli. Il tutto per – verosimilmente – una cifra compresa tra i 10 e i 20 euro. Con il rischio che quelli stessi sci vengano rovinati.
Ha senso? In questi termini, probabilmente, no. Infatti, molti viaggiano con Uber o Airbnb, ma quasi tutti affittano i propri sci alla partenza degli impianti.
L’ingrediente mancante: un problema “a due lati”
La storia di “SkiShare” è la storia di tante piattaforme che non ce l’hanno fatta. È la storia di tutte quelle piattaforme che hanno fatto lo stesso identico errore: prendere i modelli “classici” e riportarli nel mondo delle piattaforme. La storia che abbiamo raccontato rappresenta benissimo i canoni della “customer centricity”, se pensiamo a colui che vuole noleggiare gli sci. È chiaro come “SkiShare” sia un’ottima soluzione in grado di risolvere un problema.
Le piattaforme, però, hanno due clienti. E al secondo cliente, il possessore degli sci, non stiamo risolvendo un problema. Anzi…più probabilmente glielo stiamo creando.
Per progettare una piattaforma di successo possiamo, anzi dobbiamo, essere “customer obsessed”, ma a una condizione: che ci ricordiamo di avere più clienti, interdipendenti, sulla stessa piattaforma.
Il merito e il modello di Airbnb
E questo ci riporta ad Airbnb. O meglio, al grande merito che va riconosciuto ai founder di Airbnb. Brian Chesky, Joe Gebbia, e Nathan Blecharczyk sono stati in grado di progettare un vero e proprio sistema di valore, esperienze e significato in grado di unire i viaggiatori e gli host, specialmente nei primi anni della piattaforma, creando una vera e propria community di persone che credevano nell’idea di “Belong Anywhere”.
Recentemente, Brian Chesky è stato intervistato da Riccardo Haput per Actually CEO Insights e ha fatto un bellissimo punto su questa capacità di Airbnb di progettare vere e proprie esperienze per entrambi i clienti, piuttosto che focalizzarsi soltanto sugli aspetti tecnici.
In particolare, Chesky ha fatto un riferimento al libro “Hackers and Painters” di Paul Graham “Io e Joe eravamo più vicini a pittori che ad hacker. Anche se ci definivamo all’intersezione tra i due. Ci descrivevano come “non technical”, […] E credo che un designer non sia effettivamente tecnico come un ingegnere, ma non sia neanche un non-tecnico, come un manager, nel senso che un designer è ovviamente molto vicino al prodotto. Il designer è necessario per la buona riuscita del prodotto.”.
Il punto è semplice: la tecnologia serve, servono gli hacker che possano costruire la struttura delle piattaforme, ma servono anche i pittori, in grado di vedere l’esperienza e il senso per (tutti) i clienti della piattaforma.
Il Platform Thinking parte dal problema, non dal match
Marzo 2024. Parliamo di Platform Thinking, come di uno strumento che possa permettere anche alle aziende esistenti di fare innovazione, di fare digital business transformation, imparando dalle startup che ci hanno mostrato le potenzialità di questo modello.
Molto spesso, però, la tentazione è quella di guardare prima di tutto alla dimensione tecnologica della piattaforma, di fare prima di tutto gli hacker…quando invece dobbiamo partire dalle persone, dobbiamo essere prima di tutto “pittori” dell’esperienza che sarà, identificando i problemi che la piattaforma potrà risolvere per i vari gruppi di clienti.
Proprio da qui, siamo partiti durante l’ultimo workshop dell’Osservatorio Platform Thinking HUB, in cui oltre 40 manager provenienti da 13 grandi imprese italiane stanno sperimentando il Platform Thinking per portare i modelli a piattaforma all’interno dei loro processi di innovazione. Insieme, abbiamo provato ad identificare il problema che vogliono risolvere tramite i modelli a piattaforma…e soprattutto provato a capire come questo problema si declina per tutti i “lati” della piattaforma.
Da qui, ripartiremo per progettare una vera e propria proposizione di valore per tutti i side, ma questa è un’altra storia di cui parleremo nei prossimi mesi.