L'INTERVISTA

Patrick Oungre (A2A): il bilancio di tre anni di innovazione e i piani 2024

Patrick Oungre, Head of Innovation del Gruppo A2A, a tre anni dall’inizio di un programma strutturato di innovazione nel Gruppo, racconta i risultati raggiunti, le difficoltà incontrate e le novità dell’anno appena cominciato: un potenziamento del corporate venture capital e l’avvio del venture building

Pubblicato il 11 Gen 2024

Patrick Oungre, Head of Innovation del Gruppo A2A

“Per il 2024 è stato deciso di fare un’estensione importante della nostra attività di corporate venture capital e di lanciare un progetto di venture building”. A tre anni dal suo ingresso in A2A e dall’inizio di un programma strutturato di innovazione nel Gruppo Patrick Oungre può considerarsi più che soddisfatto. I primi 40 milioni sono stati quasi tutti investiti (restano i soldi per i follow on) e adesso si punta a un obiettivo molto più importante, che porterà la taglia dell’impegno a livello europeo. E presto si comincerà a lavorare sulla costruzione di nuovi business da lanciare sul mercato (il venture building).

In un momento in cui si parla spesso di “ritirata” di alcune grandi aziende dagli impegni sull’open innovation, quella di A2A è, invece, una storia di rilancio dopo una prima, intensa fase di avviamento e sperimentazione.

Abbiamo incontrato Oungre per fare un primo bilancio del lavoro fatto in una delle principali aziende italiane in ambito energetico e ambientale (circa 23 miliardi di fatturato e oltre 13 mila dipendenti) e avere un outlook sulle prospettive 2024.

A2A, tre anni di innovazione

Tre anni dopo, a che punto siete con il lavoro di innovazione in A2A?

A un buon punto perché abbiamo ormai sistemato i mattoncini necessari per cominciare ad avere risultati concreti, che portano valore al Gruppo.

Partiamo dal primo mattoncino. Da dove avete cominciato?

Dalla credibilità verso l’ecosistema. Per questo è nato lo startup kit: una serie di misure che hanno cambiato il nostro modo di operare e hanno reso possibile cominciare a dialogare in modo costruttivo con le startup, grazie a una semplificazione amministrativa. Adesso siamo in grado in 7 giorni di contrattualizzare una startup, tutto in digitale. Questa pratica è piaciuta non soltanto in Italia, ma anche all’estero dove non sempre sono più rapidi. Ci siamo trovati in tantissimi tavoli, anche oltreoceano, e devo dire che ne siamo usciti bene.

Come avete affrontato il passaggio all’open innovation?

Abbiamo cominciato a strutturare l’attività, dandoci una strategia chiara che ha visto diversi livelli di cooperazione, il primo verso le nostre persone. Abbiamo tantissimo capitale umano con competenze anche molto forti. Abbiamo scoperto che era un terreno fertile, sul quale far crescere le idee e farle diventare prodotti e servizi. E siamo riusciti a farlo anche grazie a una spinta molto importante del nostro Amministratore Delegato, che crede molto nel coinvolgimento delle persone.

A2A, il valore dell’imprenditorialità interna

Quale strumento avete utilizzato per intercettare il valore dell’imprenditorialità interna al gruppo?

Abbiamo cominciato a lanciare classiche challenge e call for ideas. Ne avevo viste altre in diversi contesti e di solito queste iniziative hanno un problema: il passaggio dall’idea al prodotto. Noi in sei settimane abbiamo raccolto oltre 500 idee, ne abbiamo selezionate circa 300 e poi siamo arrivati a una rosa ristretta di otto. Ma poi cosa ne fai dopo averle premiate e magari celebrate su un palco? Abbiamo cercato di fare un passo avanti, anche per dare un segnale di serietà e consistenza sia all’esterno sia all’interno. E così le otto idee sono diventati progetti e una è diventata un prodotto: una colonnina di ricarica di nuova generazione, che occupa poco spazio, e che è stata già installata a Brescia.

Dove sta l’innovazione portata da questa idea interna?

L’idea, proposta da un ingegnere che oggi lavora proprio nella struttura di E-Mobility del Gruppo, ha mutuato il concept della “ciabatta” che usiamo in casa per moltiplicare una presa e poter caricare più device, progettando un cabinet a cui si possono collegare sette colonnine di ricarica più piccole gestite da un sistema di intelligenza artificiale per evitare il sovraccarico della rete. Così puoi aumentare la quantità di punti di ricarica senza aumentare il consumo del suolo. Idea semplice che abbiamo accompagnato e sostenuto dal palco in cui è stata premiata fino alla “messa su strada’, coniugando innovazione interna ed esterna.

In che senso?

Nella fase di prototipazione della colonnina abbiamo fatto ricorso al crowdsourcing per il design del prodotto: era la prima volta che lo facevamo ed è stata un’esperienza molto interessante. In una settimana abbiamo ricevuto quasi una settantina di proposte di design da tutto il mondo che sono servite per creare un prodotto molto evoluto, anche se poi la versione finale è stata affidata a Giugiaro per avere un design molto curato e direi chic.

L’innovazione attraverso il crowdsourcing

Perché dici che l’esperienza è stata interessante? Il crowdsourcing si fa da molto tempo ormai…

Sì, ma è stata l’occasione per sperimentare approcci nuovi, diversi da quelli tradizionali e comunque mai esplorati. E poi tutto il processo è servito per conquistare credibilità anche all’interno del Gruppo, dimostrando che anche attraverso il team e il programma di innovazione si può creare valore.

Che cosa avete fatto per la creazione di un network in grado di garantirvi un deal flow “produttivo” di idee e soluzioni innovative?

Abbiamo lavorato per attivare una presenza internazionale, diversificando i canali per fare sourcing di opportunità e trovare risposte anche dettagliate, molto specifiche e di natura quasi ingegneristica, utili ai nostri colleghi, perché il Gruppo si occupa di realizzare infrastrutture. Qui è nata una partnership con Wazoku, community di più di 500.000 persone con profili molto tecnici, dal chimico al matematico. E lì abbiamo lanciato le sfide che con una startup avremmo fatto fatica a indirizzare. Da una di queste challenge è nato uno dei progetti innovativi appena lanciato sul mercato da A2A.

Qual è?

Una cabina elettrica interrata che permette, non solo ad A2A, di installare le infrastrutture necessarie per aumentare la disponibilità di potenza nelle grandi città che vanno verso l’elettrificazione dei consumi e la mobilità elettrica, senza consumare suolo. Il progetto è stato un bell’esempio di open innovation: l’idea nata dal crowdsourcing è diventata poi una domanda di brevetto e infine prototipo realizzato sul campo con Schneider Eletric.

La comunicazione con gli startup ecosystem

E invece come mantenete aperta la comunicazione con gli startup ecosystem?

Abbiamo una partnership importante con Plug and Play, che è arrivata in Italia proprio nel 2020 quando abbiamo cominciato: hanno lanciato un verticale sulla sostenibilità e noi abbiamo aderito subito. Abbiamo raggiunto target interessanti e alcuni sono anche diventati investimenti, perché il nostro modello è fatto in modo da valutare e cogliere qualsiasi opportunità arrivi. Abbiamo visto 600 startup e negli ultimi tre anni abbiamo convertito un centinaio di progetti che, tra le altre cose, per A2A generano risultati di EBITDA importanti.

Come sono stati raggiunti questi risultati?

Le startup tendenzialmente servono a portare tecnologie all’interno del Gruppo per migliorare l’efficienza o addirittura automatizzare processi. In questo caso si lavora sulla parte “bassa” del business, non sulla top line, sul suo sviluppo, cosa che faremo con un altro mattoncino che sarà presto pronto: il venture building.

A2A e il corporate venture capital, aumenterà l’impegno economico

Poi torniamo sul venture building. Corporate venture capital? A che punto siete?

È un pilastro del modello che funziona in maniera sinergica con gli altri “mattoncini”. Finora sono stati investiti una quarantina di milioni e adesso stiamo ragionando su un salto di livello. La prima tranche è stata come un test, grazie alle partnership con 360Capital, Eureka e Cdp Tech4Planet.

Quindi non avete mai fatto e non farete investimenti diretti sulle startup?

No, non facciamo investimenti diretti, quanto meno quando si parla di startup. Non c’è un veicolo, ci sono risorse che allochiamo con contratti di investimento a diversi gestori che richiamano il capitale man mano che si fanno gli investimenti. È stata una scelta vincente anche secondo le startup con cui lavoriamo, che hanno apprezzato il connubio investitori vc-anima industriale.

L’evoluzione del corporate venture capital prevede la creazione di un veicolo dedicato? Cosa cambierà?

No, non cambiamo l’impostazione visto che ha funzionato: rilanciamo con un maggiore impegno economico. Per ora, e incrociamo le dita, tutte le startup in portafoglio hanno performance alte in termini di rivalutazione del capitale. Ma, e per noi è il vero driver che ci ha spinto ad avviare il programma, dagli investimenti sono nate sinergie e progetti industriali. E questo resterà il nostro obiettivo: convertire il più possibile gli investimenti in progetti.

Quanti sono attualmente le startup in portafoglio?

Cinquantacinque. Ma i progetti industriali sono nati con le startup investite dal fondo A+con 360Capital, dove abbiamo allocato gran parte delle nostre disponibilità. Quando investi in un fondo multipartner il discorso è diverso, ma abbiamo visto che possono arrivare spunti di innovazione anche da startup apparentemente lontane dal nostro business. E presto lanceremo un nuovo progetto che lo conferma. Inoltre, un dato interessante è che ad oggi le startup in portafoglio hanno creato complessivamente più 1600 nuovi posti di lavoro, di cui oltre 750 in Italia.

E in Silicon Valley? Perché non avete un’antenna lì?

Non esserci è una scelta. La Silicon Valley è talmente distante che la probabilità che una startup venga a fare un progetto in Italia è molto bassa, soprattutto nel mondo hard tech. Abbiamo preferito puntare su ecosistemi che hanno caratteristiche simili alle nostre e dove le startup hanno il bisogno di uscire dal proprio mercato, di internazionalizzarsi. Magari un giorno andremo anche in Silicon Valley, ma quando potrò rispondere alla domanda: che cosa riesci a ricavare dalla tua presenza lì?

Il team di innovazione di A2A

Come è organizzato il team di innovazione che guidi?

Le persone di cui parlavo sono divise in sei strutture: Ecosystem, Corporate Venture Capital, Corporate Venture Building (che gestirà anche le call), Digital Hub (che comprende designer, scrum master, sviluppatori agile, e si occupa di sviluppo di MPV con una forte attenzione alla UX), Digital emerging tech (con due verticali su AI e robotica) e poi una piccola struttura di governance. Questo team collabora con gli innovation manager presenti in ogni area di business.

Quante persone lavorano nel team innovazione?

Siamo partiti con qualche unità e arriveremo a quasi 30 persone. Abbiamo capito che molte cose le potevamo fare molto bene, a cominciare dallo scouting e dalla costruzione e gestione di una rete di relazioni come quelle che abbiamo stabilito nel tempo. Dopo Israele, dove abbiamo una partnership con un fondo di venture capital e abbiamo lavorato con l’Innovation Authority, quest’anno il focus sono stati i Nordics: a Stoccolma c’è infatti uno degli ecosistemi di innovazione cleantech più sviluppati al mondo.

2024, A2A e il venture building

2024, farete un rilancio nel corporate venture capital e lancerete venture building. Perché e come?

L’obiettivo del venture building è avere un motore di crescita, con l’individuazione e lo sviluppo di nuovi business innovativi ad altissimo potenziale, mercati aggredibili che valgono più di un miliardo.

A inizio 2024 lanceremo una venture competition esterna e interna all’azienda, da cui potenzialmente nasceranno spin out con grande spazio ai founder in Cap Table, con quota di minoranza per A2A, che deve essere il partner industriale per poter coinvolgere gli investitori di venture capital. Non è facile ma ci stiamo lavorando.

Nulla è facile. Chiudiamo con le difficoltà incontrate…

La prima criticità è creare credibilità per l’innovazione, sia sul fronte interno sia su quello esterno. La sfida, quindi, è fare breccia, magari con qualche quick win per cominciare a creare già dentro l’azienda una cultura dell’innovazione basata sui risultati. Se guardiamo alla matrice dell’innovazione, siamo partiti dall’area tra incrementale e adiacente, per essere convincenti e utili per la business line; adesso cominciamo a spostarci verso l’area della trasformazione. Anche sul fronte esterno devi essere credibile, quando lanci una call ad esempio. Devi saper dare un seguito, far capire che fai sul serio per poter attrarre candidature di qualità. Lo abbiamo fatto, ci siamo riusciti. E adesso siamo pronti a rilanciare.

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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