Un terzo delle imprese italiane dichiara di aver adottato un approccio di Open Innovation, il 24% ha in programma di farlo, il 18% afferma di non saperlo, il 24% non è interessato e solamente l’1% ha adottato azioni di Open Innovation in passato ma ha deciso di abbandonare tale approccio.
Questo è quanto risulta dalla Ricerca degli Osservatori Startup Intelligence e Digital Transformation Academy, che ha indagato il livello di adozione di Open Innovation e le collaborazioni con le startup da parte di 250 imprese italiane, grazie all’annuale Survey Innovation 2018 rivolta a CIO e Innovation Manager.
Quello che emerge è un quadro in cui la metà delle imprese sono interessate all’open innovation, mentre poco meno di un quarto lo esclude dalle azioni su cui impegnarsi.
Si tratta di un approccio che, sulla carta, può senz’altro portare grandi benefici per le imprese in un contesto in cui i costi di innovazione crescono per fronteggiare la costante riduzione dei cicli di vita dei prodotti. La ricerca, tuttavia, ha messo in luce come il numero di imprese che dichiara di aver implementato azioni riconducibili ad un approccio di Open Innovation (ad esempio provando collaborazioni con startup oppure svolgendo occasionali hackathon e contest interni) risulti essere di gran lunga superiore al numero di aziende che afferma esplicitamente di adottare un approccio di innovazione aperta. Il 58% delle imprese ha infatti attuato almeno una delle tipiche azioni di Open Innovation, tra queste figurano, ad esempio, lo sviluppo di Hackathon, Call4ideas, operazioni di crowdsourcing, ingresso in equity di startup (Corporate Venture Capital), collaborazioni con Centri di Ricerca e Università, ma anche azioni per portare all’esterno innovazione interna come Licensing, Joint-Venture e Spin-off.
Questo è un dato interessante che dimostra quanto le aziende in Italia adottino approcci di innovazione aperta anche in modo inconsapevole o senza avere una strategia mirata e condivisa.
Ciononostante, è un bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. Da un lato è apprezzabile che le imprese italiane sperimentino nuove forme di innovazione, ivi comprese azioni di coinvolgimento dei dipendenti a tutti i livelli, approcciando nuovi stili e nuovi paradigmi spesso discontinui rispetto alle prassi correnti. È certamente una buona notizia se queste azioni sono intese come piccoli passi, graduali, che sottostanno ad un percorso strutturato e ragionato di innovazione. Dall’altro lato, però, il rischio è che queste mosse vengano attuate per moda, per azioni di marketing o di comunicazione, ricadendo così nella trappola del cosiddetto “innovation theater”, che porta a poco se non a frustrazione, sprecando risorse e inducendo disillusione.
L’Open Innovation non è la panacea di tutti i mali e non è un percorso facile né gratuito. È un modello che va inserito e pensato nella strategia delle imprese integrando diverse leve: dall’ingaggio delle persone all’ecosistema delle collaborazioni, dalla cultura ai processi, dai metodi agli stili di leadership. Questo sforzo deve essere, tuttavia, accompagnato anche da un’azione di sistema, ancora debole nel nostro Paese. Da un lato le imprese devono assumere un approccio meno avverso al rischio, aprendosi maggiormente al Corporate Venture Capital per trainare lo sviluppo dell’ecosistema degli innovatori, dall’altro devono rinforzarsi le azioni pubbliche per spingere il rinnovamento culturale per l’innovazione. In questo quadro si inseriscono le azioni concrete che il Politecnico di Milano e Polihub stanno mettendo in campo in questi anni, dall’Osservatorio Startup Intelligence per le imprese, all’Osservatorio Startup Hi-Tech, al fondo di investimento Poli360, al contest Swith2Product per gli studenti, per citarne alcuni.