“Open Innovation Made in Italy” è il titolo di un libro pubblicato da Franco Angeli e curato da Giuseppe Iacobelli, consigliere delegato di JCube, l’incubatore di imprese del gruppo industriale Maccaferri. Un volume collettivo, gli autori sono una ventina, per fotografare lo sviluppo dell’innovazione aperta nelle imprese italiane. Ma perché parlare di un’open innovation made in Italy? Ci sono specificità nazionali, nel bene e nel male? Ecco le risposte in questo intervento di Giuseppe Iacobelli.
Il 2018 è stato un anno di importanti traguardi per l’affermazione di un moderno ecosistema dell’innovazione in Italia ed il 2019 si prefigura come un anno di svolta per confermare e consolidare alcuni significativi fenomeno in atto. La crescita delle startup di successo, l’incremento della finanza di rischio, l’aumento delle politiche di open innovation e di corporate venturing, sono state alcune delle dinamiche che hanno caratterizzato un significativo mutamento del contesto.
Lo scenario industriale del nostro Paese è oggi caratterizzato dalla pressoché scomparsa dei grandi gruppi industriali e contemporaneamente dalla presenza di medi gruppi, che hanno saputo affermarsi a livello internazionale. Questi attori, oggi player nevralgici del Made in Italy, sono molto orientati all’innovazione tecnologica ed organizzativa attuata attraverso percorsi esterni. Ecco allora che le startup, spinte da forte spirito imprenditoriale, agilità organizzative, competenze tecnologiche, si candidano a diventare enzimi trainanti dell’evoluzione di tecnologie e modelli di business, in una molteplicità di settori industriali.
L’open innovation nei distretti industriali
I fenomeni rilevati nell’ambito italiano paiono rappresentare una specificità nazionale dell’open innovation ed esprimono alcuni elementi interessanti in considerazione di alcuni caratteri tipici del nostro Paese, come ad esempio le relazioni di cooperazione e d’innovazione, anche aperta, attuate nella tradizione dei distretti.
Il termine open innovation porta con sé un sentore di nuovo e di particolare ma in realtà non dovrebbe essere un elemento così sconosciuto in Italia. Nelle tradizionali modalità organizzative e relazionali dei distretti industriali, che per lungo tempo hanno rappresentato un modello di successo dell’economia del nostro Paese, venivano attuate forme di cooperazione tra aziende che erano in grado di trasferire il know-how su base locale, utilizzando modalità di knowledge sharing basate su evolute capacità di technology transfer e absorptive capacity, che sono alla base del paradigma dell’open innovation.
Le imprese italiane hanno praticato forme di innovazione aperta in maniera inconsapevole ed informale all’interno delle geografie e filiere dei distretti ed hanno in qualche modo anticipato il fenomeno poi sintetizzato in letteratura dal Professor Henry William Chesbrough.
La novità, non secondaria, è che nella fase attuale le strategie di open innovation vanno ingegnerizzate in strutture apposite e capaci di governare perimetri tecnologici, organizzativi, e territoriali più articolati.
Osservando l’odierno stato dell’arte dell’open innovation in Italia si rilevano alcuni primi casi di attori che stanno lavorando allo sviluppo di piattaforme organiche d’innovazione aperta, attraverso la creazione di propri innovation lab, incubatori, o anche attraverso infrastrutture e competenze di partner esterni. Queste iniziative, oltre ad avere un valore per le singole organizzazioni, hanno determinato delle esternalità positive e sono diventate “de facto” dei riferimenti per intere filiere o cluster di aziende nei territori.
La mancanza di grandi attori in Italia crea inerzie
Le operazioni che sono state avviate potrebbero essere l’inizio di un processo ben più diffuso e profondo, considerata la capillarità e la varietà del sistema industriale italiano; tuttavia la mancanza di attori di grandi dimensioni determina delle inerzie e pone il problema di individuare delle modalità per attivare percorsi condivisi nell’implementazione e nella gestione delle pratiche di open innovation e corporate venturing.
I casi di piattaforme di open innovation e corporate venturing made in Italy paiono esprimere delle traiettorie estremamente interessanti in termini di sistema industriale in quanto realizzano dei contesti aggregatori condivisi ed aperti a più istanze.
Per tali motivi, e considerati i risultati positivi dell’impatto dello “Startup Act” a sostegno delle startup e dell’imprenditorialità innovativa in Italia (OECD, 2018),
sarebbe auspicabile che la realizzazione di una nuova fase di politiche di open innovation e corporate venturing, non venga lasciata solamente alla componente privata, ma venga accompagnata da uno sforzo di elaborazione di policy focalizzato sul corporate venturing,
capace di stimolare crescita e sinergie tra strategie di open innovation, favorirne le esternalità su un elevato numero di imprese e territori, interconnetterne le dinamiche con altre politiche di trasferimento tecnologico e agevolare la nascita di veicoli di corporate venture capital.