L’innovazione non è un pranzo di gala, si potrebbe dire parafrasando un celebre detto di Mao Tsè-Tung. E questo è ancora più vero se si vogliono far partecipare alla tavola ospiti giovani, irrequieti e creativi come le startup: in questo caso è impossibile non mettere in conto fatiche, incomprensioni e fallimenti.
Ma se la gran parte dei progetti di innovazione fallisce (basti pensare che, secondo una ricerca di BCG, il 70% dei progetti di digital transformation nelle aziende non raggiunge l’obiettivo e si spegne rapidamente) non può essere solo per quella inevitabile quota di incertezza che accompagna ogni iniziativa di cambiamento, soprattutto quando è radicale, disruptive, e accelerata dalla relazione con una giovane impresa innovativa.
Proprio perché è attività ad alto rischio, l’innovazione non si può improvvisare. Insuccessi, frustrazioni e conseguenti crisi di rigetto sono sempre funzione di qualche errore di percorso, di una sbagliata manovra nella elaborazione degli ingredienti, nell’assenza di una guida (o di un’assistenza alla guida) capace di dare motivazioni e definire obiettivi. E ancora: di un’errata strategia (o peggio, di una mancanza totale di strategia) nella gestione della “relazione di coppia” che si va a intraprendere con le startup.
L’insoddisfazione per le attività di digital transformation
Che innovare sia una tappa obbligata per continuare ad operare e ad avere successo sul mercato è ormai consapevolezza diffusa nelle aziende. E sono sempre di più quelle che hanno individuato nelle startup un interlocutore privilegiato per accelerarla: si cercano idee, soluzioni, prodotti, competenze, modelli di business in grado di potenziare la legacy dell’azienda, la sua presenza sul mercato, la relazione con i clienti. Aumentano di conseguenza gli investimenti ma non sembra crescere di pari passo la soddisfazione. Bastano due numeri per rappresentare il disagio di un’intera classe di manager: il 94% degli executive sono insoddisfatti delle loro attività di innovazione, secondo la Global Innovation Survey di McKinsey 2019. D’altro canto, il 95% dei nuovi prodotti o servizi fallisce.
C’è quindi un bug da affrontare. E solo un top manager su cinque ritiene di avere le competenze, le risorse e l’ingaggio interno per poter affrontare la nuova crescita possibile con l’innovazione (McKinsey Survey 2020). Insomma, nelle aziende si sente la necessità, e in molti casi anche il desiderio di cambiare, ma buona parte dei tentativi vanno a vuoto e c’è la consapevolezza di non potercela fare da soli. Aprirsi diventa quindi una necessità per non privarsi di talenti, competenze, futuro. Ma aprire i confini organizzativi senza un disegno sottostante che guidi e indirizzi strategicamente il progetto verso degli obiettivi predefiniti equivale a non aprirsi affatto.
Il futuro dell’open innovation
Il futuro dell’open innovation, come dice il titolo dell’ultimo libro di chi l’ha teorizzata, Henry Chesbrough, è risolvere il paradosso davanti al quale si trovano le corporate e i Paesi ad economia avanzata: il progresso tecnologico sta accelerando, mentre la crescita della produttività economica è in calo. Perché accade questo? Il prof di Berkley segnala tre possibili ragioni: un problema di misurazione (“le nuove tecnologie richiedono l’utilizzo di nuove misure per riuscire a catturare il loro vero valore per la società”); un divario fra chi è avanti e chi è ancora fermo (“le migliori organizzazioni stanno effettivamente accelerando la loro crescita e produttività, ma il resto è sempre più indietro”); l’incapacità di rinnovare gli investimenti in innovazione (“La nostra infrastruttura dell’innovazione è costituita dai cosiddetti “hard e soft asset”, necessari a generare, diffondere e assorbire nuove conoscenze innovative”).
Una piattaforma di innovation matching per far incontrare domanda e offerta di innovazione
“A pensarci bene, l’innovazione in azienda è un paradosso perché vede leader e entrepreneur – ossia i dipendenti con mindset imprenditoriale e creativo – innovare per il futuro dell’azienda in una “macchina” progettata per il presente e concentrata sul core business”, osserva Andrea Solimene, founder di Seedble, business accelerator che lo scorso anno ha lanciato una piattaforma di open innovation che, tra le altre cose, supporta le aziende nello scouting di idee innovative. “ blendX è una piattaforma di innovation matching che, con il suo recommendation system, basato su un algoritmo di intelligenza artificiale, riesce a guidare le aziende verso la selezione e l’adozione della soluzione innovativa più adatta alle proprie necessità, identificandola nell’ambito di un più ampio set di soluzioni alternative disponibili”.
L’innovazione rappresenta una voce di investimento che nelle aziende è destinata a crescere e richiede quindi una sempre maggiore capacità di governo. Nel campo della digital transformation, solo nel 2020 sono stati spesi più di 1 trilione di dollari in tecnologie e servizi (IDC Spending Guide). “Secondo dati del MIT, ogni anno vengono sprecati oltre 100 miliardi di dollari in spese per l’innovazione”, ricorda Solimene. “Uno spreco dovuto principalmente all’assenza di processi, sistemi e modelli che possano innestare l’innovazione in azienda”.
Trattare la Digital Transformation come qualcosa che riguarda l’infrastruttura tecnologica e l’IT è il modo peggiore per fare innovazione. Così come affrontare l’open innovation alla stregua della ricerca di un nuovo fornitore. E invece si tratta di attività e scelte che riguardano la cultura aziendale, il suo DNA, il business model . Se non si lavora così, le probabilità di insuccesso sono altissime.
Abbiamo discusso con Andrea Solimene di Seedble dei principali fattori che minano l’efficacia dei progetti di open innovation in azienda.
I fattori di insuccesso dell’open innovation
1. Non avere il mindset corretto
Il Lotto, il Tinder, lo Show-Biz, l’Avaro: secondo un articolo di Sifted del Financial Times, queste sono le possibili categorie di innovatore da evitare in azienda. Da questo, si intuisce come il primo, grande fattore di insuccesso nelle attività di open innovation non sia altro che il mindset con cui ci si approccia ad un’attività che dovrebbe essere strategica, ma che risulta inutile se condotta con l’atteggiamento sbagliato . Se si pensa di poter fare molto con poco, lavorando soprattutto di marketing e facendo magari i prepotenti con le startup non si va di certo lontano.
“Corporate accelerator, innovation lab, call4startup e hackathon sono le azioni principali che le aziende mettono in campo per innovare. In molti casi sono azioni legate a obiettivi di networking e posizionamento, il cui budget proviene dal dipartimento marketing”, osserva Solimene. “Ma se un acceleratore di idee è pensato e strutturato per soli scopi di visibilità, le pratiche e il know-how non emergeranno e non si radicheranno internamente. Le aziende non devono scegliere le startup per raccontare un’affascinante storia ai media, ma per attivare sviluppo congiunto di prodotti, di soluzioni e di tutto ciò che possa rispondere alle sfide aziendali”.
Prendere nota: evitare il “Transformation Washing”.
2. Non cambiare la cultura aziendale
Un’azienda è la somma della sua storia, delle sue pratiche, dei suoi processi, delle competenze delle sue persone. È la sua cultura, punto di forza ma anche punto di debolezza quando diventa un freno alla comprensione di ciò che è diverso, di ciò che esterno al perimetro aziendale. Fattori come il timore di assumersi rischi, la mancanza di abitudine alla collaborazione, l’ossessione per i processi a discapito dei risultati, la tendenza a confermare lo status quo diventano ostacoli insormontabili al cambiamento.
Il primo passo per una fruttuosa collaborazione con le startup è quindi un’azione convinta di change management che cambi il modo di lavorare e permetta l’ascolto e l’accoglienza di tutto quanto proviene da attori esterni all’organizzazione .
3. Non avere obiettivi chiari
Non basta decidere di aprirsi alle startup per andare da qualche parte. Nella migliore delle ipotesi si finisce per fare “Innovation Theatre”, un po’ di comunicazione e magari qualche incontro interessante.
Allo stesso tempo, l’obiettivo non è l’unica cosa che conta: se ci si approccia a un progetto di innovazione con l’unico obiettivo di ottenere risultati facili e immediati, non si farà altro che generare delusione e frustrazione nel team aziendale e probabilmente anche fra le startup coinvolte. Avere obiettivi chiari significa avere sempre a mente quale need interno ha innescato il percorso e in quale direzione si sta andando, inserendo le attività di open innovation nel più generale mainframe della digital trasformation (se questo c’è…).
4. La mancanza di un committente
La chiarezza degli obiettivi – e, soprattutto, il loro perseguimento – dipendono anche dal commitment delle persone coinvolte nel progetto. Chi compone un team di innovation deve avere alcune specifiche caratteristiche – come la curiosità, la flessibilità, l’empatia e l’apertura al cambiamento – che lo rendono un change agent in grado di innescare e portare avanti il cambiamento. Allo stesso tempo e come per ogni altra tipologia di progetto, è indispensabile che il vertice dell’azienda sia coinvolto e convinto. Se il CEO o gli altri CLevel non hanno mai tempo o voglia di incontrare le startup con cui si sta lavorando, bisogna cominciare a farsi qualche domanda. E prepararsi al probabile fallimento.
5. Non avere processi adeguati al nuovo che si cerca
“Abbiamo lasciato la startup acquisita fuori dal gruppo per non soffocarla”. Questa frase del top manager di una prestigiosa azienda del Made in Italy sintetizza perfettamente una delle maggiori difficoltà delle organizzazioni tradizionali: ricomprendere ed inserire le realtà innovative terze in modelli organizzativi precostituiti che non prevedono questo tipo di apertura in quanto pensati e configurati per controllare e rassicurare.
Individuare un partner innovativo e avere la volontà di investire non basta a garantir e un risultato per il business: bisogna interviene sui processi dell’azienda per fare in modo che possano prevedere ed accogliere l’innovazione che viene dall’esterno dei confini organizzativi. In caso contrario, il rischio è di continuare a fare le stesse cose, magari con un po’ di tecnologia in più che, in molti casi, diventa solo una complicazione.
6. Non avere le competenze necessarie
Si dice spesso che, nell’ambito di progetti di co-innovazione, aziende e startup debba no trovare un codice comune per comunicare e intendersi. Per comprendere l’entità del gap di comunicazione, basti pensare che il dialogo tra un’azienda e una startup è paragonabile a quello tra un adulto sicuro di sé e un adolescente irrequieto e brillante.
Ma al di là delle questioni generazionali, c’è spesso un tema di competenze: quante persone che lavorano in aziende tradizionali sono in grado di portare avanti un progetto innovativo basato, ad esempio, su tecnologie emergenti (come la blockchain) o sullo scouting e sull’integrazione di soluzioni esterne (co-innovazione)?
Non avere all’interno del team le competenze necessarie a fare innovazione non deve, tuttavia, far desistere dall’iniziare un progetto di questo tipo: una soluzione potrebbe essere quella di ingaggiare giovani talenti da portare dentro l’organizzazione per integrare le skill che mancano o rivolgersi ad esperti di innovazione come quelli di Seedble che disegneranno un progetto evolutivo basato sulle specificità dell’organizzazione e diventeranno punti di riferimento e preziosi compagni di viaggio nel percorso verso la trasformazione.
7. Non avere un budget dedicato
C’è una vita dopo il POC, dice il manager dell’innovazione di una compagnia di assicurazione. Sì, ma solo se è stata pianificata bene l’attività di innovazione, compreso il budget per passare dalla fase di sperimentazione di un servizio o di un prodotto ed al suo lancio sul mercato. Purtroppo, questo spesso non accade: in molte aziende si parte con l’idea dell’open innovation, si fanno le call o gli hackathon, si avvia la sperimentazione per far lavorare l’innovation team e quando si arriva a qualcosa di interessante tutto si congela perché non ci sono i soldi per andare avanti. Inutile sottolineare l’enorme spreco di tempo e risorse che questo comporta, sia lato azienda che lato startup.
Da questi punti emerge chiaramente che l’Open Innovation (e l’innovazione più in generale) è tutt’altro che una questione di improvvisazione. La guida di esperti come gli Innovation Advisor di Seedble, che lavorano da anni in questo campo con ogni tipo di azienda e che sono sempre aggiornati sugli ultimi trend di mercato e tecnologici, può rivelarsi la chiave di volta per un’azienda che voglia avviare un progetto di innovazione che abbia una consolidata visione alla base e, al contempo, un forte orientamento ai risultati.