Kodak aveva in casa un dipendente che inventò la prima macchina fotografica digitale e gli disse di non parlarne in giro, invece Siemens è solita attribuire un budget agli impiegati in modo che si finanzino in autonomia le proprie idee più innovative. Sony lanciò il primo lettore di e-book, ma Amazon prevalse con il suo Kindle, pur arrivando dopo in ordine di tempo, perché riuscì a tenere maggiormente conto dell’ecosistema che la circondava. Michelin lanciò pneumatici altamente innovativi, ma in pochi li acquistarono perché si era dimenticata di portare a bordo del progetto i garagisti, ovvero non aveva ragionato in un’ottica di fiiera. L’open innovation è una grande opportunità per le aziende, ma bisogna sapere come metterla in pratica: ci sono esempi di imprese che sono riuscite a innovarsi utilizzando nel modo più appropriato idee nate da dipendenti, collaboratori, ricercatori o startup, e altre che non hanno capito l’importanza di questa strategia o non hanno saputo applicarla. E hanno fallito.
Sarà una tavola rotonda particolarmente affollata quella incentrata su “Open innovation-Il paradigma dell’accelerazione”. Paliani modererà il dibattito al quale interverranno Domenico Arcuri, Ceo di Invitalia, Eugenio Aringhieri, Ceo di Dompé e Paolo Boccardelli, direttore della Luiss Business School. Lucia Chierchia, Open Innovation Director di Electrolux, racconterà l’esperienza di innovazione della sua azienda. Seguiranno Fabrizio Gea, Coordinatore Nazionale Digital Innovation Hub, Confindustria; Maximo Ibarra, Coordinatore Master in Management and Technology, Università LUISS; Nicoletta Luppi, Presidente e CEO, MSD Italia; Carlo Masseroli, General Manager Project Milanosesto, Bizzi & Partners Development; Giovanni Ronca, Co-Head Italy, Unicredit. Il dibattito si chiuderà con un intervento di Alessio Rossi, Presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria.
Tutti impegnati a riflettere su alcuni case studies quali ricavare lezioni per il futuro. Vediamone qualcuno: non necessariamente quelli che saranno presi in considerazione durante la tavola rotonda di EY ma comunque casi dei quali si è scritto e parlato, anche in questo report.
CASI DI SUCCESSO
1. SIEMENS – La conglomerata tedesca ha realizzato con successo una cultura collaborativa che motiva i dipendenti coinvolgendoli e facendoli collaborare tra loro invece che con il management in tutte le fasi di proposta, perfezionamento e selezione di un’idea. Come parte del suo approccio all’open innovation ha infatti lanciato “Quickstarter”, un contest per idee in-house. La sua particolarità è che le decisioni riguardanti i progetti da finanziare non vengono prese dal management ma dagli stessi impiegati. I dipendenti che ritengono di avere una buona idea hanno 4 settimane per presentarla su una piattaforma online. In molti casi queste presentazioni generano discussioni professionali interessanti tra colleghi di diverse unità di business. Alla fine gli investor, ovvero i dipendenti che si sono registrati per ricoprire questo ruolo, possono distribuire il budget. I progetti che ricevono i fondi necessari attraverso questa metodologia vengono implementati.
LESSON LEARNED: OFFRIRE CONDIVISIONE ATTRAVERSO NETWORK INTERNI
2. ENEL – La società dell’energia e del gas crede fortemente nell’open innovation. Nel 2016 ha incontrato 1550 startup e ha avviato 80 progetti di collaborazione in molti dei 30 Paesi in cui la società è presente. Qui sono reperibili i dettagli di 8 progetti che rientrano nella strategia di open innovation del primo operatore europeo nel settore dell’energia. Enel ha inoltre creato la “Enel Idea Factory” all’interno del suo Dipartimento per l’Innovazione allo scopo di incoraggiare la partecipazione di dipendenti di qualsiasi livello al processo innovativo. L’obiettivo è trasformare i luoghi di lavoro in laboratori per la creazione di idee, la promozione dell’integrazione tra diversi dipartimenti corporate e l’apertura al mondo esterno.
LESSON LEARNED: COINVOLGERE LE RISORSE INTERNE
3. Y PROCTER & GAMBLE – Finora ProP&G assumeva personale in base a criteri relativi a valori, risultati e leadership. Lo fa tuttora, ma ricerca anche agilità e flessibilità. In base al suo approccio all’open innovation, P&G ritiene che le cosiddette soft skills – le competenze ‘sociali’ quali consapevolezza di sé, auto-realizzazione ed empatia – siano necessarie per completare le tradizioni skill relative al quoziente intellettivo. Curiosità, disponibilità a collaborare e a mettersi in relazione con l’altro sono argomenti di cui si parla facilmente, ma non facili da sviluppare nella pratica. P&G ha cercato di individuare con attenzione le persone che hanno smanie di controllo o sono insicure, che non sono disposte a condividere, non sono aperte e non sono curiose. Inoltre la società porta in azienda molti talenti provenienti da fuori. Di recente ne sono arrivati diversi a seguito di una raffica di acquisizioni. Una strategia definita “acqui-hiring”.
LESSON LEARNED: RECLUTARE TALENTI ATTRAVERSO LE ACQUISIZIONI
4. NOKIA – L’innovazione – si legge nel report di EY – è centrale per Nokia: l’ha sempre fatta per sviluppare i prodotti attraverso l’evoluzione delle conoscenze interne, ma negli ultimi 5 anni ha capito l’importanza dell’ecosistema che la circonda. Così Nokia ha iniziato a sviluppare prodotti attraverso la co-creazione con l’esterno, in particolare rivolgendosi alle startup, ovviamente in base alle proprie specifiche necessità. Le ha acquisite o ha investito in esse: un approccio che ha avuto anche qualche aspetto negativo, ma in definitiva ha ripagato dell’impegno. Perciò la società sta proseguendo su questa strada.
LESSON LEARNED: INTERAGIRE CON LE STARTUP
5. VIBRAM – Questa azienda italiana con sede ad Albizzate (Varese), che produce suole di gomma per calzature destinate all’impiego in montagna nella scalata, ha successo grazie anche all’applicazione dell’open innovation. In particolare intraprende varie collaborazioni con partner esterni, quasi tutti in mercati nuovi e stranieri. Le strategie di open innovation che hanno funzionato di più sono state intraprese prima in America, poi in Cina e quindi in Europa. Una delle partnership più recenti è con l’azienda Americana InStep NanoPower e riguarda Hero system, un dispositivo per le suole che è in grado di raccogliere e trasformare l’energia prodotta dal movimento, la quale può a sua volta ricaricare altri strumenti.
LESSON LEARNED: STRINGERE PARTNERSHIP CON REALTÀ INNOVATIVE
Made in Italy, anche le suole possono cambiare con l’open innovation
CASI DI INSUCCESSO
6. KODAK – Il caso da manuale di mancata open innovation è quello di Kodak. Lo descrive con efficacia Vince Barabba, ex dirigente di Kodak, nel libro Devil’s Advocate Group, ricordando che proprio un ingegnere del gruppo, Steve Sasson, inventò la prima macchina fotografica digitale nel 1975. La reazione dell’azienda fu sconcertante: rendendosi conto che si trattava di fotografia senza uso di pellicola, e temendo quindi di andare verso il fallimento, disse a Sasson che era “cute”, “carina”, ma gli suggerì di non parlare con nessuno della scoperta. Quando, nel 1981, Sony lanciò la prima macchina fotografica elettronica, Vince Barabba fu incaricato dal Ceo di condurre una ricerca approfondita sulle nuove tecnologie per capire quali sarebbero stati i livelli di adozione della pellicola in nitrato d’argento e della fotografia digitale. I risultati dello studio – rievoca il top manager di Kodak – furono una cattiva notizia e una buona notizia: la cattiva era che la fotografia digitale aveva le potenzialità per rimpiazzare la vecchia pellicola e quindi il business di Kodak. La buona notizia era che ci sarebbero voluti anni, almeno una decina. Il colosso aveva il tempo per prepararsi alla transizione. Ma non lo fece. Questo fallimento strategico è stata la causa diretta del lungo declino della società e del suo successivo crollo. In questo caso un’azienda non ha saputo attingere alla creatività e alla genialità di un suo dipendente interno e non ha saputo guardare con lungimiranza a quello che accadeva intorno a sé, anche tra i competitor.
LESSON LEARNED: ASCOLTARE L’INNOVAZIONE INTERNA
7. QUIRKY – Per coloro che credono nell’open innovation (in un’ottica di sharing economy), Quirky era uno degli esempi perfetti. La startup fondata a New York nel 2009 da Ben Kaufman consisteva in una piattaforma che metteva in collegamento le aziende con gli inventori e con coloro che intendevano contribuire a un progetto. È scomparsa dalla scena a settembre 2015 dopo aver bruciato 185 milioni di dollari in venture capital. Nel suo momento di massimo splendore riceveva migliaia di idee alla settimana da oltre mezzo milione di utenti e approvava un gruppo selezionato di prodotti destinati allo sviluppo, per poi inviare i prodotti sviluppati ai partner del retail. Aveva solide collaborazioni con Amazon, il Museo di arti moderne e altre società, e continuava ad assumere personale. Cosa non ha funzionato? Alcuni sostengono che è stato speso troppo denaro per sviluppare oggetti che non sarebbero mai riusciti ad approdare sugli scaffali: per esempio uno specchio per il bagno in grado di eliminare il vapore generato dalla doccia calda o un set di ruote per trasformare qualsiasi oggetto in un automezzo telecomandato. “La lezione – sostiene un articolo della Harvard Business Review – è che l’open innovation, specialmente quella che si apre a una comunità di consumatori più ampia, può velocemente portare una società ad accelerare la propria evoluzione verso un’ampia varietà di categorie di prodotto. Può essere importante per quelle aziende che cercano di entrare in nuovi mercati dove non hanno una presenza. Ma questo approccio non porta necessariamente a idee radicalmente nuove e quindi vincenti”.
LESSON LEARNED: LAVORARE SOLO A IDEE DETERMINANTI PER CONQUISTARE IL MERCATO
8. MICHELIN – Alcuni esempi di fallimenti nell’innovazione sono descritti nel saggio The Wide Lens: A New Strategy for Innovation di Ron Adner, docente di strategia alla Tuck Business School di Dartmouth. Uno di questi riguarda Michelin, che negli anni Novanta sviluppò un rivoluzionario tipo di pneumatico dotato di sensori e con una struttura interne che consentiva di proseguire la corsa per ben 200 chilometri dopo la foratura della gomma. Una luce sul cruscotto notificava al guidatore l’avvenuta foratura. Forte dell’innovatività del prodotto, la società francese strinse un’alleanza con Goodyear per raggiungere almeno il 40% del mercato mondiale dei pneumatici. Mercedes firmò per adottare quel tipo di pneumatici sui propri modelli, seguita da altri importanti produttori quali Audi e Honda. Eppure nel 2007 Michelin dovette abbandonare il prodotto perché si rivelò un fallimento. Come era potuto accadere? La società non si era confrontata con l’intero ecosistema del mondo delle gomme per auto. In particolare non aveva tenuto conto dei meccanici che riparano le gomme e non li aveva presi a bordo. Per applicare quel tipo di pneumatici, i garagisti avevano bisogno di strumentazioni costose e che occupavano molto spazio: solitamente non avevano né il denaro né lo spazio sufficienti. Inoltre avrebbero dovuto acquistare gli strumenti molto prima di poterli utilizzare in modo continuo. Perciò non procedettero con gli acquisti.
LESSON LEARNED: RAGIONARE IN UN’OTTICA DI FILIERA
9. HOLLYWOOD – Un altro caso di mancata open innovation citato dal professor Ron Adner riguarda gli studi di Hollywood. Alla fine degli anni Novanta decisero di portare il cinema digitale nelle sale cinematografiche statunitensi. Il passaggio al digitaale è stato il più recente traguardo tecnologico nel mondo del cinema: finita l’era della pellicola, siamo migrati nell’era dei file, dove l’unità di misura del digitale è il pixel, elemento puntiforme quadrato o rettangolare che contribuisce a creare l’immagine. Cavalcando con lungimiranza questo cambiamento, nel 1990 Hollywood decise di proiettare in digitale il primo episodio di Star Wars nel 1999. Setta anni più tardi solo il 5% degli schermi cinematografici americani stava usando la proiezione in digitale. Perché? Gli studios non avevano tenuto conto dei costi di conversione per le sale, che potevano arrivare a 70mila dollari per schermo. Danaro che serviva per acquistare l’hardware e il software necessari. Alla fine Hollywood ammise l’errore, trovò un modo di finanziare l’adozione della nuova tecnologia da parte delle sale cinematografiche e il progetto decollò. Ma nel frattempo si erano spesi soldi ed energie.
LESSON LEARNED: TENERE CONTO DI TUTTI I PROTAGONISTI DELLA FILIERA
10. SONY – Un’analoga dinamica si è verificata per un prodotto innovativo della Sony, il reader di e-book lanciato sul mercato nel 2006. Come sottolinea nel suo libro Ron Adner, il Reader non teneva conto delle sfide economiche e legali che questo oggetto poteva rappresentare per autori ed editori, non offriva una soluzione per la gestione dei diritti digitali e non dava modo di creare un buon store online. L’anno successivo Amazon lanciò il suo Kindle: più grande e pesante del Reader, con uno schermo di qualità inferiore e una piattaforma chiusa che consentiva di scaricare contenuti solo da Amazon. Eppure ebbe la meglio sul Reader. Anche in questo caso, sottolinea il docente universitario, il big dell’e-commerce era riuscito ad allinearsi con l’ecosistema per produrre valore: non si era infatti limitato a esercitare pressioni sugli editori perché sostenessero il Kindle, ma aveva creato le condizioni per rendere la rivoluzione degli e-book attraente per l’editoria.