Un tempo c’erano gli uffici, poi gli open space e i co-working, oggi i co-living. Un unico spazio nel quale lavorare e vivere, annullando quel sottile confine tra vita professionale e vita privata. Se a qualcuno l’idea potrebbe far inorridire, a molti entusiasma per il solo fatto di ottimizzare i tempi ed evitare il traffico cittadino negli spostamenti da casa a lavoro. La tendenza che si sta diffondendo soprattutto in ambienti hitech è di affittare non soltanto una scrivania in spazi di co-working, ma di cercare nel giro di pochi metri quadrati anche un posto dove poter soggiornare, a patto che sia super accessoriato e super-servito e pieno di nuovi imprenditori e creativi. È l’idea con la quale WeWork, la startup di New York valutata 10 miliardi di dollari, sta lanciando il progetto WeLive, un unico edificio nel quale imprenditori di aziende diverse condividono luoghi di lavoro e mini-appartamenti. Si scambiano snack e bibite e, nel frattempo, si confrontano sui loro business e fanno nascere nuovi progetti. Più che un semplice modo di lavorare e di ottimizzare le spese di affitto di un ufficio e delle utenze, sta diventando uno stile di vita.
Fondata nel 2010 da Adam Neumann e Miguel McKelvey, dopo un’altra esperienza simile con GreenDesk, WeWork ha oggi sedi in 16 città del mondo, dagli Stati Uniti a Israele, dal Regno Unito all’Olanda. I primi uffici si trovavano al SoHo district di New York, dai quali sono passate tante startup che poi si sono ingrandite e hanno acquistato una loro sede, come Consumr, HackHands, Coupon Follow, Turf, Fitocracy, Reddit e New York Tech Meetup. Nel 2011, anche PepsiCo ha mandato alcuni suoi dipendenti nella sede di SoHo. L’ultima inaugurazione risale allo scorso mese: un palazzo all’angolo tra South Clark e la 23esima strada, nel quartiere di Crystal City, ad Arlington (Virginia), appena fuori Washington D.C. Da un edificio abbandonato è nato uno spazio di co-working e co-living, chiamato WeLive, con 252 mini appartamenti e servizi di ogni genere, quali sala giochi, giardino, biblioteca, spazi comuni e molti parcheggi di biciclette. Ma si parla già della prossima apertura di un edificio di 27 piani a Manhattan. Secondo alcune voci non confermate, poi, sarebbe stato concluso un altro contratto d’affitto (perché per politica aziendale WeWork non effettua mai acquisti) per un palazzo di cinque piani più attico al numero 1161 di Mission Street nel Mid-Market di San Francisco, sede di tante società hitech. Lo spazio di 69 mila piedi quadrati si troverebbe a circa tre isolati da Twitter, quattro isolati dalla Uber, sei isolati da Pinterest.
Ma qual è la ragione di tanto successo? Affittare uno spazio in WeWork è relativamente economico: 350 dollari al mese per una scrivania non assegnata e 550 dollari per un ufficio personale. I co-worker risparmiano i costi per la sicurezza, reception, internet, stampa e spazi per conferenze, hanno possibilità di networking e di far parte di una specie di incubatore, con tanto di magazine e con il motto “Do what you love” (fai quello che ami) scritto ovunque. Ma non è certo per la birra sempre in fresco, i divanetti in pelle o le sale conferenze ultra-tecnologiche che in tanti scelgono i co-working e ora anche i co-living. WeWork ha saputo farsi portavoce di un nuovo modo di lavorare e di vivere, cavalcando l’onda rivoluzionaria che proviene dalla Silicon Valley. Il segreto sta in quel prefisso co- che suggerisce l’idea di comunità, di condivisione, di cooperazione che dà ai professionisti del Terzo Millennio la sensazione di appartenere a un gruppo e di poter trarre vantaggio da esso. John Battelle, un veterano del settore tech e autore di libri, ha scritto sul suo blog che WeWork “sta tentando di scalare una nuova cultura che promette una qualità più elevata dello stile di lavoro”. WeWork è figlio della sharing economy e di quella promessa vagheggiata da tante startup di semplificare la vita. Quello che si ottiene con il contratto d’affitto non è una scrivania in condivisione, ma la speranza di far parte del “sogno americano” tanto pubblicizzato dalla Valley: diventare ricco in fretta, creando una startup che possa cambiare il mondo.
Stesso discorso vale per il co-living, soltanto che anziché una scrivania si affitta a breve termine un appartamento. La speranza è di avere alla porta accanto una persona con la quale condividere le proprie idee e speranze e dalla quale farsi ispirare. Quello che WeWork vende – così come altre società simili, Common e The Caravanserai – è la promessa di far sentire ogni giovane imprenditore il nuovo Mark Zuckerberg, prendendosi cura dei suoi bisogni e della sua creatività. “Quando sei nella fase di avvio della tua società – ha detto il fondatore di WeWork, Miguel McKelvey – ogni cosa è difficile e sarebbe meglio che almeno l’affitto dell’appartamento nel quale soggiornare all’inizio fosse semplice”.
Un punto di forza nella proposta delle società di co-living è ovviamente l’avanguardia tecnologica. Una società di co-working, Enerspace, ha da poco lanciato un edificio beta a Chicago e ha inviato uno dei suoi manager, Jamie Russo, presidente della League of Extraordinary Coworking Spaces (un’associazione di società che offrono spazi di co-working) a testare i suoi servizi. Uno dei fiori all’occhiello è una parete di vetro ai piedi del letto che di giorno può essere usata come lavagna luminosa e di notte si scurisce e diventa uno schermo per giocare a Roku o vedere qualcosa in streaming con Netflix. “Non è come essere in un acquario – ha detto la Russo a BuzzFeed News – ma ti senti totalmente te stesso. Si sta normalizzando l’idea che si può davvero integrare il lavoro con il sonno. Puoi vivere e lavorare nello stesso spazio senza spostamenti. Il rischio è che potresti sentirti sempre in obbligo di lavorare”.
Quando, però, la birra fresca finisce e ci sia accorge che sui quei divanetti non si siedono poi così tanti investitori pronti a far fare il salto di qualità alla propria startup – scrive Nitasha Tiku di BuzzFeed News – ci si accorge che forse non si vedrà mai un’offerta pubblica iniziale e che pagare 500 dollari per essere in una specie di “Disneyland per imprenditori” è un po’ eccessivo.