Steve Jobs ha realizzato ottimi prodotti commerciali, ma quasi tutta la ricerca scientifica che sta dietro all’iPod, all’iPhone e all’Ipad è stata realizzata in Europa e negli Usa da scienziati e ingegneri che usufruivano di fondi pubblici. La Silicon Valley è spesso descritta come la quintessenza dello sviluppo imprenditoriale libero da qualsiasi contributo statale, ma in realtà l’impulso iniziale alla sua nascita è stato dato da contratti militari per la ricerca e al suo sviluppo ha contribuito fortemente la politica di difesa governativa statunitense. Sulle 100 invenzioni più brillanti degli anni 2000 elencate nella rivista R&D Magazine, solo 27 sono state ideate da una singola azienda, mentre tutte le altre hanno ricevuto contributi statali o un mix tra fondi pubblici e privati. Sono elementi che emergono da “Lo Stato innovatore” (edizioni Laterza), versione italiana di “The Entrepreneurial State: Debunking Public vs. Private Sector Myths” di Mariana Mazzucato, docente di Economia dell’Innovazione allo Spru (Science and Technology Policy Research Centre) dell’University of Sussex nel Regno Unito.
Un libro che, già dalla prima edizione inglese, ha suscitato un vivace dibattito nel mondo anglosassone per la sua tesi di fondo: smontare il “mito” che l’impresa privata sia la sola forza innovativa e lo Stato sia invece una forza inerziale, troppo pesante per fungere da motore dinamico dell’economia. Ora che debutta in Italia è probabile che il volume susciterà un ulteriore polverone. Peraltro già nel marzo scorso un articolo scritto da Mazzucato per The Economist in cui la docente invitava a “non ossessionati dal ‘mito’ delle startup” e a sviluppare piuttosto “un ecosistema innovativo nel quale le imprese appena nate riescano a crescere attraverso un’interazione tra investimenti pubblici e privati” aveva scatenato commenti e anche polemiche. Un dibattito ospitato anche da EconomyUp, con interventi di venture capitalist quali Luigi Capello e Andrea di Camillo.
Ne “Lo Stato innovatore”, Mazzucato spiega in modo chiaro ed articolato le sue tesi di fondo. Nelle economie più avanzate, scrive, è lo Stato a farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione. E ancora: è lo Stato il creatore di tecnologie rivoluzionarie come quelle che rendono l’iPhone così smart: internet, touch screen e gps. Ed è lo Stato a giocare il ruolo più importante nel finanziare la rivoluzione verde delle energie alternative. Ma se lo Stato è il maggior innovatore, perché allora tutti i profitti provenienti da un rischio collettivo finiscono ai privati? Per molti lo Stato imprenditore è una contraddizione in termini, per la Mazzucato è una realtà e una condizione di prosperità futura.
A sostegno delle sue teorie, oltre agli esempi già citati, cita il caso del National Institutes of Health, agenzia del Dipartimento per la Salute statunitense considerata tra le eccellenze della ricerca medica mondiale. Ebbene, tra il 1993 e il 2004 questo ente pubblico è stato responsabile di circa il 75% delle principali scoperte scientifiche relative a nuove entità molecolari. Altro esempio: First Solar, azienda statunitense che si occupa di energia solare, è potuta nascere esclusivamente grazie al supporto statale.
Più in generale il governo Usa ha indirizzato lo sviluppo delle principali nuove tecnologie in ambiti completamente innovativi quali l’information technology, le biotecnologie, l’energia nucleare e le nanotecnologie. La ricerca finanziata con soldi pubblici, ribadisce Mazzucato, è stata visionaria, perché non solo è stata in grado di ridurre i rischi che comporta il mercato, ma ha aperto la tecnologia allo sviluppo di idee totalmente innovative. E non sono solo gli Usa ad investire soldi pubblici in innovazione. La studiosa cita Danimarca, Germania e Cina come Paesi in cui i contributi pubblici hanno contribuito al lancio di iniziative imprenditoriali di successo.
Se l’intervento statale è non solo auspicabile e positivo ma anche “innovatore”, il venture capital non esce molto bene dal confronto con l’investimento pubblico. Per Mazzucato è una forma di intervento troppo “rapida” e finisce per incoraggiare solo iniziative imprenditoriali di breve termine, quindi non sostenibili nel lungo periodo. Invece, a suo dire, sono proprio quelle di lungo periodo che attraggono maggiormente gli investitori nei mercati finanziari.
L’auspicio finale resta che lo Stato e il settore privato assumano insieme i rischi della ricerca e godano insieme dei benefici. Una proposta, almeno in apparenza, “armonica”, ma che sembra già destinata a suscitare osservazioni e, forse, polemiche.