L’innovazione digitale può contribuire a rendere il pianeta più sostenibile e, in particolare, l’intelligenza artificiale può e deve essere impiegata per progetti di conservazione, miglioramento e rigenerazione del pianeta Terra. Ma, accanto ai colletti blu (gli operai) e quelli bianchi (gli impiegati), dovrà farsi largo una nuova figura: quella dei colletti verdi, ovvero i “pastori dell’Artificial Intelligence”. Coloro in grado di prendersene cura, governarla, orientarla. Perché, alla fine, questo è un ruolo che può svolgere soltanto l’intelligenza umana. A identificare, con il consueto linguaggio immaginifico, questo nuovo protagonista sul palcoscenico dell’innovazione è Luciano Floridi, uno dei massimi filosofi del nostro tempo.
Professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, e chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, l’istituto britannico per la data science, farà presto la spola tra UK e Italia, suo Paese d’origine, per portare avanti l’attività di ricerca presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna dove rivestirà l’incarico di professore ordinario di Sociologia della Cultura e della Comunicazione presso il Dipartimento di studi giuridici. Autore di saggi fondamentali per chi si occupa di innovazione digitale quali “La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo” e “Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale”, entrambi editi da Raffaello Cortina, Floridi legge la digital transformation alla luce di un pensiero filosofico in grado di definirne il senso e di evidenziarne le questioni etiche, snodo fondamentale per il presente e il futuro.
A lui chiediamo di spiegarci il nuovo trend dell’innovazione sostenibile: il connubio cioè tra sostenibilità, parola fin troppo usata e a volte abusata da individui ed imprese, e mondo digitale. Due concetti un tempo considerati quasi agli antipodi, perché alcune tecnologie hanno avuto (e in parte hanno) un impatto negativo, o comunque non benefico, per la natura e il pianeta. Eppure oggi l’essere una realtà sostenibile comporta anche la conoscenza e l’utilizzo di tecnologie quali la già citata intelligenza artificiale, il machine learning, l’Internet of Things e molto altro.
“Le aziende devono cominciare a capire che la sostenibilità non è un’aggiunta, una tinteggiatura di colore di un business che in fondo non cambia”.
Come può il digitale aiutare individui e imprese nell’impegno per la sostenibilità?
In due modi: innanzitutto contribuendo a migliorare le conoscenze scientifiche. Se riusciamo a comprendere i fenomeni, valutare l’efficacia delle politiche ambientali, cogliere le conseguenze di determinate azioni o analizzare le ragioni dei disastri ambientali, è perché siamo in grado di raccogliere dati e di elaborarli. Oggi il sapere scientifico si basa in maniera robusta sul digitale. Che sostanzialmente è, per dirla con il linguaggio filosofico, una grande forza epistemologica. In altre parole ci permette di conoscere molto meglio quello che avviene, per poi prendere le necessarie decisioni. Questo è il digitale sull’ambiente. Poi c’è il digitale per l’ambiente: ovvero l’innovazione tecnologica che ci induce a cambiare il modo in cui ci comportiamo, consumiamo, ci prendiamo cura del pianeta.
Esempi?
Ad Oxford stiamo lavorando da 3 anni a “The Oxford Initiative on AI×SDGs”, iniziativa nata per identificare alcuni dei problemi globali che l’Artificial Intelligence può contribuire a risolvere, e per suggerire strumenti e best practice. Finora abbiamo raccolto oltre 120 progetti di intelligenza artificiale, realizzati in varie parti del mondo, in grado di supportare e far avanzare gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (United Nations Sustainable Development Goals). Prevedono l’utilizzo dell’AI per scopi concreti quali la garanzia di avere acqua potabile, la possibilità di migliorare l’educazione primaria, di combattere l’erosione del suolo, di sventare i grandi incendi nelle zone a rischio, di scongiurare la distruzione della barriera corallina. Presto invieremo un questionario ai responsabili dei progetti, scelti tra organizzazioni non governative, enti pubblici o iniziative finanziate dal settore privato ma pro bono, per capire che cosa ha funzionato e perché: una sorta di laboratorio per comprendere come procedere per il futuro. Ci stiamo anche coordinando con altre banche dati in Sudamerica e Canada, per arrivare ad essere l’unico repository di questo tipo per le Nazioni Unite.
L’intelligenza artificiale è sempre e solo strumento di sostenibilità? Nel recente articolo accademico “The AI Gambit” (qui il report completo da scaricare, ndr) lei approfondisce il ruolo dell’AI per contribuire a risolvere le questioni legate ai cambiamenti climatici. Ma ne evidenzia anche il lato oscuro…
L’AI può contribuire a migliorare e diffondere ulteriormente l’attuale comprensione dei cambiamenti del clima, così come può aiutare a combattere la crisi climatica in modo efficace. Tuttavia il suo sviluppo solleva due ordini di problemi: la possibile esacerbazione delle sfide sociali ed etiche già associate all’AI e il contributo al cambiamento climatico dei gas a effetto serra emessi dai sistemi ad alta intensità computazionale. In sostanza questi sistemi di intelligenza artificiale e machine learning consumano quantità colossali di energia. Purtroppo negli ultimi anni c’è stata una sorta di corsa agli armamenti, specialmente nel machine learning, che ha comportato sprechi e mancanza di attenzione. Questo, ovviamente, ha avuto un impatto sull’ambiente. Tuttavia, nell’articolo scritto con i colleghi di Oxford, dimostriamo che l’AI resta una forza positiva. Ed elaboriamo una dozzina di raccomandazioni su come si potrà fare molto meglio in futuro.
Come?
Per esempio iniziando a definire delle categorie. Ormai per qualsiasi oggetto, dal frigorifero alla lampadina, il produttore specifica qual è l’impatto del prodotto in termini di sostenibilità ambientale. Questo non avviene per l’AI. All’acquirente di un servizio di intelligenza artificiale non viene comunicato l’impatto di quel servizio sull’ambiente. È l’ora di farlo. Anche per alimentare una sana competizione tra le aziende.
Parlava delle sfide etiche associate all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. A che punto siamo su questi temi?
La mia tesi è che il mondo abbia bisogno di tanta intelligenza umana. Stiamo creando macchine che sono in grado di risolvere compiti, ma a intelligenza zero. Un esempio ricavato dalla quotidianità: se i miei capi vengono rovinati dalla lavatrice, di chi è la colpa? Della macchina che non ha fatto il suo dovere? O sono io che ho sbagliato a utilizzare la macchina? Altro esempio tratto da un recente episodio di cronaca: la Tesla che va a schiantarsi quando è attivata la modalità di guida autonoma (e i due passeggeri a bordo muoiono nello schianto). È stata l’automobile a sbagliare o l’errore va individuato in un eccessivo affidamento dell’essere umano alla tecnologia senza una ponderata valutazione del rischio? La vera rivoluzione dei nostri tempi è che siamo riusciti a ‘scollare’ la capacità di agire con successo dall’intelligenza. I problemi etici nascono proprio dal divorzio tra i due aspetti.
Cosa fare per cercare di ricomporre la frattura?
Dobbiamo mettere più intelligenza umana nello spazio d’azione che si è creato. Ecco perché è venuto il momento dei colletti verdi. Vedo emergere una nuova categoria lavorativa, che definirei i pastori dell’AI, ovvero coloro che si prendono cura degli agenti artificiali che rappresentano una grande riserva di capacità di agire con successo senza alcun bisogno di intelligenza, e possono gestirli al meglio, sui problemi giusti, e nella direzione giusta. Di questo tratterò nel mio prossimo libro, “L’etica dell’intelligenza artificiale”, edito dalla Oxford University Press, che dovrebbe uscire in traduzione il prossimo anno per i tipi della Raffaello Cortina Editore. Intanto guardo con interesse alla nuova proposta di legge europea sull’impiego dell’AI, che si occupa anche della questione dell’assegnazione di responsabilità.
“La sinergia strategica digitale-ambiente è un’arma per superare un capitalismo consumistico e distruttivo” ha scritto nel suo saggio “Il Verde e il Blu”. Come può un’azienda incrementare il business sposando questo nuovo modello?
Deve saper ripensare completamente la propria attività. Non solo il digitale aiuta a capire meglio che cos’è la sostenibilità, ma anche a realizzarla usando le forze del mercato. La partita sarà vincente se l’impresa riuscirà a re-ingegnerizzare processi e prodotti destinati al mercato a favore dell’ambiente e della società. Se invece continuerà a fare “business as usual”, ritenendo che sia sufficiente una pennellata di verde e di blu, sarà destinata al fallimento.
Quali mercati e quali imprese possono diventare protagonisti dell’innovazione sostenibile?
Un buon esempio è rappresentato dal mondo dell’energia. Ma in generale il fenomeno interessa tutte quelle realtà produttive che riescono a rivedere i processi in versione molto più economica: l’utilizzo del digitale è infatti in grado di abbattere notevolmente i costi in ogni settore della produzione. Dal punto di vista strategico, le imprese di maggior successo saranno o molto giovani o molto coraggiose: giovani perché hanno flessibilità, capacità di adattamento e sono prive del peso del passato. Se invece si tratta di grandi aziende, serve il coraggio di saper mettere in discussione tutto ciò che hanno accumulato nel corso degli anni. Devono cioè cominciare a chiedersi in profondità chi sono e cosa vogliono fare da grandi.
Qualche esempio?
Penso alle banche: perché un istituto bancario, nel 2021, dovrebbe avere una sede fisica e magari in pieno centro? Non sarebbe più opportuno se aprisse filiali in periferia, dove è più comodo trovare parcheggio, o se decidesse di restare aperto 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, almeno per determinati servizi? Lo stesso discorso vale per il settore assicurativo. Nel retail, poi, è evidente che occorre un serio ripensamento nella distribuzione dei prodotti sul territorio. Un supermercato, per esempio, può decidere di non avere più una collocazione fisica ma di fare solo consegne a domicilio. È una scelta che comporta la dismissione di una serie di infrastrutture, strutture, risorse… Ecco perché serve coraggio. Si tratta di abbandonare la cosiddetta legacy, l’eredità del passato, il “si è sempre fatto così”. Non è facile, ma è indispensabile per affrontare il futuro.