IMPRENDITORIALITÀ

Linda Rottenberg (Endeavor) : “Per fare gli imprenditori bisogna essere pazzi”

Linda Rottenberg, co-fondatrice e CEO di Endeavor, rete internazionale per far crescere le aziende innovative, parla a EconomyUp dell’entrepreneurship all’estero e in Italia. Specificando: “Nel vostro Paese siete indietro nel venture capital e nella velocità richiesta dai nuovi business. Ma avete i brand e la creatività”

Pubblicato il 15 Gen 2024

Linda Rottenberg

Linda Rottenberg, alla guida di Endeavor, rete internazionale che fa crescere le aziende innovative, ha le idee chiare sul nostro Paese: “L’Italia ha tanti punti di forza, come i brand, la creatività e la capacità imprenditoriale. Ma sul venture capital è ancora indietro“. E ancora: “Ha un sistema troppo lento, bisogna accorciare i tempi”. Di una cosa però è certa: per fare gli imprenditori, in Italia come in qualsiasi altra parte del mondo, bisogna essere un po’ “pazzi”.

Cos’è Endeavor

Endeavor è l’organizzazione-simbolo del fare impresa come movimento globale. Co-fondata nel 1997 dall’imprenditrice e manager Linda Rottenberg, oggi conta 60 uffici in 42 mercati nel mondo e una rete di oltre 500 team member e mentor internazionali che selezionano le imprese innovative ad alto potenziale di crescita e le accompagnano nella fase di scale-up. Sono oltre 2000 gli imprenditori finora selezionati: imprenditori, appunto, perché Endeavor funziona vagliando scrupolosamente non l’azienda, ma chi la guida, con le sue idee e la sua mentalità da “imprenditore seriale”. A spiegare a EconomyUp questo modello, ma anche le caratteristiche del mercato italiano dell’imprenditoria innovativa, è proprio la co-fondatrice e CEO, Linda Rottenberg, che abbiamo incontrato a Roma in occasione del più recente International selection panel di Endeavor, l’appuntamento (in media uno al mese, sempre in una città diversa) con cui l’organizzazione riunisce i suoi membri e seleziona gli imprenditori per i loro progetti di scale-up.

La global entrepreneurship secondo Linda Rottenberg

Lei ha guidato il movimento della global entrepreneurship fin dal 1997. Da quale spinta è nato e come si è evoluto in questi anni?

Negli Anni ‘90 nessuno pensava che ci fossero mercati emergenti o in crescita, com’è il caso dell’Italia. La visione era Usa-centrica: si pensava che solo in Silicon Valley ci fosse spirito imprenditoriale innovativo, capace di dar vita a un pullulare di startup e scaleup. Quando ho cominciato a sostenere che l’entrepreneurship fosse un fenomeno globale, sono stata considerata una matta – di qui il soprannome di chica loca. Ma come può esserci imprenditorialità senza capitali o senza un ecosistema?, era l’obiezione. Ebbene, oggi Endeavor è presente in 42 mercati. In tutto il mondo gli imprenditori usano la tecnologia per risolvere i grandi problemi locali e globali superando i modelli del passato che non funzionano più. Forse all’inizio si trattava di tentativi di emulare i modelli della Silicon Valley, ma adesso queste imprese sono diventate a loro volta dei modelli cui ispirarsi. Pensiamo, per esempio, in Italia, a Satispay, Unobravo o Bending Spoons. Un fattore che agevola questo è ovviamente, il fatto che i capitali sono globali.

Venture capital in Italia: per Linda Rottenberg siamo indietro

Questo aiuta anche l’Italia. Il nostro venture capital non è ancora un supporto sufficiente. È d’accordo?

L’Italia ha tanti punti di forza, come i brand, la creatività e la capacità imprenditoriale. Ma sul venture capital è ancora indietro. E proprio la carenza di capitali che arrivano da professionisti del capitale di ventura ha fatto sì che occorresse più tempo all’ecosistema innovativo italiano per mettersi al passo. Se non hai capitali pensi in piccolo; quando i capitali ci sono, l’asticella si sposta in alto. Guardiamo a esperienze come quelle di Poke House e Unobravo: è emozionante vedere come il livello di ambizione dei fondatori e degli imprenditori italiani sia cresciuto. Ma il venture capital non cresce allo stesso modo. In Italia c’è prima l’idea d’impresa e poi si cercano i soldi, magari tra family and friends. La svolta avviene, invece, quando si parte dai soldi. Ma, secondo me, tra un paio d’anni vedremo ridursi il gap e, nel giro di cinque anni, avremo in Italia angel investor professionisti pronti a mettere i capitali sulle idee imprenditoriali.

Può spiegarci il modello adottato da Endeavor?

Siamo una società no-profit che è innanzitutto una community, un trasferimento di conoscenze: i partner e mentor del network selezionano gli imprenditori e presentano loro gli investitori in modo super partes. Nel nostro board abbiamo tanti business leader capaci di leggere il mercato e di cogliere il potenziale delle iniziative di innovazione. Ci concentriamo sull’idea e sul fondatore, cercando storie ambiziose, persone capaci di ispirare gli altri e dar vita a un business che cresce, perché risolve un reale problema delle società. Organizziamo incontri tra fondatori e finanziatori e creiamo una rete globale per aprire mercati e imparare. Crediamo fortemente nell’effetto moltiplicatore, ovvero nella capacità delle imprese più promettenti non solo di crescere nei loro numeri di business ma di reinvestire nella prossima generazione di sviluppo tecnologico e imprenditoriale. Non siamo finanziatori direttamente ma co-investiamo tramite l’Endeavor Catalyst LP Funds, di cui sono direttrice, e interveniamo nei round Serie A-E.

Venture capital a parte, come vede il mercato italiano e dove potremmo migliorare?

L’accelerazione sul digitale c’è e il venture capital sta crescendo, ma l’Italia avrebbe bisogno di equity manager professionisti, al di fuori degli istituti bancari. Per far decollare l’ecosistema dell’innovazione occorrono investitori smart e strategici, con una mentalità propensa al rischio. Direi più management investor e meno finanziatori tradizionali. Io trovo che la forza dell’Italia sia nei brand: l’Italia è capace di creare dei marchi riconosciuti in tutto il mondo. Ha un forte e nutrito tessuto imprenditoriale, ma forse dovrebbe trovare una sua specializzazione, un campo in cui viene riconosciuta in tutto il mondo come best in class, unendo all’alta tecnologia le tipiche caratteristiche del Made in Italy come la storia, la qualità, l’emozione. Noi, per esempio, abbiamo in portafoglio una società dell’addictive manufacturing. Ma qualunque direzione l’Italia decida di prendere, c’è un elemento che conta più di tutti: la velocità. Se devo trovare un singolo elemento su cui spronare l’Italia è questo: il sistema è troppo lento, bisogna accorciare i tempi tra il decidere di fare e il fare. Sicuramente gli interventi di CDP e dei governi hanno facilitato l’innovazione e dato un impulso, ma bisogna cogliere l’attimo. Non spaventarsi, ma osare.

“Crazy is a compliment”: il libro sull’imprenditoria di Linda Rottenberg

A proposito di osare, lei è autrice del libro “CRAZY IS A COMPLIMENT”. Anche gli imprenditori o gli investitori italiani beneficerebbero di un po’ più di follia?

Sì, interpretando la follia come essere audaci, pensare in grande, fare qualcosa che non è mai stato fatto prima. Gli altri probabilmente penseranno che siamo dei pazzi, ma va bene così: anzi, se non lo fanno è perché non stiamo innovando abbastanza, non stiamo aprendo nuove frontiere. Questo non vuol dire essere incoscienti o buttare i soldi su qualunque fantasia. Invece, significa investire consapevolmente in un progetto in cui crediamo perché, fondatamente, pensiamo che funzionerà. A quel punto si deve puntare in alto, anche se il successo non è garantito.

Lei si è laureata in Legge all’Harvard College e alla Yale Law School, ma ha anche ottenuto un dottorato ad honorem in Lettere presso il Babson College. Nell’era digitale in cui si lamenta costantemente la carenza di competenze IT e si promuovono gli studi STEM, qual è il ruolo delle materie umanistiche?

Le materie tecnico-scientifiche sono molto importanti, ma le discipline umanistiche hanno un ruolo più che mai fondamentale con la diffusione delle tecnologie di intelligenza artificiale e, in particolare, di intelligenza artificiale generativa. Sì alle STEM, ma la nuova era del digitale ha bisogno anche di letterati, di storici, di filosofi e di artisti, perché l’AI forse può imparare a fare il programmatore software, ma non può imitare la creatività umana. E, di fronte ai rischi e alle complessità dell’AI, solo il pensiero critico e l’intelligenza umana potranno garantire un’adozione sostenibile.

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Patrizia Licata
Patrizia Licata

Giornalista professionista freelance. Laureata in Lettere, specializzata sui temi dell'hitech e della digital economy, dell'energia e dell'automotive. Scrivo dal 2007 anche per CorCom, parte del gruppo Digital360

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