Scorro gli ultimi tweet di Eugenio Aringhieri per sentire in qualche modo ancora la sua presenza e ci ritrovo subito quell’energia e quell’imprevedibilità che mi avevano colpito durante il nostro primo incontro, deciso oltretutto dopo uno scambio di battute sull’innovazione proprio su Twitter. Dalla citazione del maestro Rubinstein, che certamente suona beffarda pochi giorni dopo la straziante scomparsa del manager, filtra un’umanità spavalda che è possibile forse attribuire anche alle sue potenti radici toscane. Il successo come accettazione della vita e di ciò che ci porta. Anche la morte.
Eugenio Aringhieri era amministratore delegato della Dompé, dal 2007. Dieci anni intensi e decisivi, affrontati coraggiosamente in una inconsueta simbiosi con l’imprenditore, incontrato un decennio prima. «Con il presidente Sergio Dompé abbiamo fatto la nostra scelta 10 anni fa, quando era già chiara la configurazione che stava prendendo il mercato: chi si occupa del primary care; i genericisti che puntano solo sul prezzo; la fascia di chi continua a fare ricerca. Noi abbiamo deciso di essere protagonisti in questa area premium, investendo sulla punta della piramide: le malattie rare. E allora abbiamo cominciato un bellissimo percorso…», raccontava Aringhieri in un’intervista a EconomyUp. Nel 2017 era arrivata un’ulteriore conferma della bontà di questa linea: il primo farmaco biotech approvato dalla Commissione europea, un collirio nato dalle ricerche che erano valse il Nobel a Rita Montalcini. Aringhieri ne era giustamente fiero, per la Dompé ma anche per l’Italia.
Eugenio Aringhieri non c’è più. La formula per il successo da lui condivisa prevede di accettare anche questa oscena consegna della vita. Quello che possiamo e dobbiamo fare, coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e tutti quelli che hanno a cuore il futuro dell’Italia, è ricordare e rilanciare il suo convinto entusiasmo per l’innovazione nelle nostre aziende, la sua apertura mentale e la sua curiosità spesso scarse nella nostra classe dirigente. Ecco alcuni titoli di sintesi della sua lezione che, come ha già annunciato il presidente Sergio Dompé, l’azienda farmaceutica porterà avanti con determinazione.
SI PUÒ FARE, ANCHE IN ITALIA
«Per 20 anni siamo stati seduti sul sedile accanto ai grandi del biotech. Adesso abbiamo dimostrato che si può fare anche in Italia, anche in un’azienda delle nostre dimensioni. Questo è un prodotto italiano che risolverà un problema di pazienti di tutto il mondo». Così parlava Aringhieri, che era anche Presidente del Gruppo Biotecnologie di Farmindustria,dopo l’approvazione del primo farmaco biotech della Dompé. Un concreto inno al Made in Italy e alla sua capacità di innovazione in uno settore strategico come il biotech. Un orgoglio che non va perso e va quotidianamente sostenuto
AVVICINARE RICERCA E INDUSTRIA
«Il trasferimento tecnologico è il vero driver del Paese, perché è un ponte che unisce i luoghi dell’innovazione con l’industria». Eugenio Aringhieri lo ripeteva tutte le volte che poteva. Era convinto dell’importanza della ricerca (come confermano gli investimenti della Dompé: circa il 15% del fatturato) ma era ancora più convinto della necessità di sviluppare la capacità di farla diventare volano di business.
FOCALIZZAZIONE E CONNESSIONE
Per fare innovazione, però, non è sufficiente la ricerca. L’industria farmaceutica sta vivendo il suo secondo tempo, diceva spesso Aringhieri. È aumentata la complessità ed è sempre più importante concentrarsi nel far bene una cosa, avere un focus, e poi connettersi con il mondo esterno. Focalizzazione e connessione. Ho avuto il piacere di ospitare Aringhieri in una puntata di EconomyUp su Reteconomy Sky512. Nell’intervista, a partire dal minuto 5:30, c’è una buona sintesi della sua visione di manager severo ma ottimista, critico quando serve ma sempre positivo.
LA NECESSITÀ DELLA CONTAMINAZIONE
Dall’ufficio di Aringhieri si vedeva l’ala del palazzo che ospita e-Novia, fabbrica di startup nata da uno spin-off del Politecnico di Milano sulla quale il gruppo Dompé ha investito. Quando ho chiesto ad Aringhieri che cosa c’entrassero gli ingegneri con una casa farmaceutica, l’Internet of Things e l’Intelligenza Artificiale con fiale e provette, questa è stata la risposta: «Io credo nella contaminazione. Guardi che cosa sta accadendo nell’automotive: c’è una seconda vita possibile per quella industria, ma con una diversa cassetta degli attrezzi. Lo stesso momento disruptive sta vivendo il farmaceutico. Non dimentichiamo che è già in fase di valutazione il primo e-drug: un farmaco grande quanto un granello di sabbia con la tecnologia inside più che wereable, in grado persino di connettersi. E questo cambierà radicalmente il mercato…Far lavorare ingegneri e scientist insieme significa accoppiare competenze digitali e biotech. Una combinazione necessaria per le sfide che ci attendono»
IL NUOVO RUOLO DEL CEO
L’innovazione vera si fa fuori dalle imprese consolidate, ammetteva Aringhieri, ma non per questo le aziende sono tagliate fuori. Deve però cambiare il modo di fare impresa e di governare le imprese. «Il sistema è diventato talmente complesso che un uomo solo al comando non funziona più. Non devi dare risposte, ma devi saper fare domande…A me fanno paura i depositari della verità, chi ha sempre una risposta su tutto perché ha sempre vinto. Perché adesso è cambiato il campo di gioco…Il nuovo CEO è un facilitatore, fa domande. Ovviamente per fare le domande giuste devi sapere di che cosa stai parlando». Aringhieri sapeva di che cosa stava parlando e il mercato glielo riconosceva: Best European CEO 2016 nel Biotech e, nel 2017, era stato nominato Best Performing CEO sempre in ambito Biotech. Mancherà alla Dompé. Mancherà al biotech italiano. Mancherà all’ecosistema italiano dell’innovazione