Finita la pandemia, lo smart working forzato e il telelavoro emergenziale, è opportuno chiarire bene quali sono le caratteristiche delle nuove forme di lavoro digitale e come queste si distinguono dal lavoro tradizionale.
Abbiamo visto nel precedente articolo quali sono le azioni di sistema necessarie a sviluppare il lavoro digitale in Italia. Fare chiarezza su cosa rientra nella definizione è fondamentale per capire come regolarlo nel modo più opportuno (bene fanno i sindacati e le associazioni datoriali a preoccuparsi di fughe in avanti che siano il frutto di una scarsa comprensione delle nuove forme di lavoro).
Un lavoratore subordinato che lavora due giorni da casa è una modalità sicuramente moderna di lavoro, ma non si può qualificare come una nuova forma di lavoro che determini una vera discontinuità nella vita professionale del lavoratore e nel modo in cui opera l’azienda. Per questi lavoratori e le aziende che li impiegano il regolamento per lo smart working e le deroghe del governo sono interventi sufficienti, seppur migliorabili con ulteriori semplificazioni e servizi.
Altre nuove forme di lavoro hanno invece caratteristiche diverse che richiedono quindi nuove modalità di organizzazione, gestione e regolazione.
Se infatti il digitale può essere una vetrina in cui domanda e offerta di lavoro si incontrano – e poi proseguono con un rapporto di lavoro tradizionale, – o una piattaforma che coordina l’organizzazione di attività in presenza e in momenti specifici – si veda il caso per esempio dei Rider, – solo quando le attività vengono anche realizzate digitalmente, senza vincoli di spazio e tempo, attraversando potenzialmente i confini della singola azienda o del singolo Stato, si creano delle condizioni veramente nuove nella prestazione lavorativa. (I nuovi criteri di classificazione delle forme di lavoro subordinato definite dal Parlamento europeo sono utili ed interessanti ma non affrontano il tema di queste nuove forme di lavoro).
Chi riguarda il lavoro digitale?
Le nuove forme di lavoro riguardano quindi quei lavoratori e lavoratrici il cui lavoro è gestibile da remoto, con una presenza saltuaria negli uffici del proprio datore di lavoro (o del cliente), e che possono scegliere di lavorare liberamente anche per più committenti contemporaneamente, eventualmente con l’accordo del proprio datore di lavoro, in alcuni casi coordinando o (auto) coordinandosi in autonomia con altre persone e aziende su progetti temporanei, integrati e concatenati, con una natura della prestazione che oscilla tra subordinazione e autonomia.
Si tratta di forme di lavoro creative, tecnologiche, digitali, ad alto contenuto professionale, in cui le competenze e la creatività contano più del tempo di lavoro, e che necessitano di connettersi in filiere complesse di progetti, attività e dati, anche temporanei e intermittenti, con una costante attenzione all’aggiornamento professionale, mantenendo un certo tasso di autonomia e apertura alla collaborazione.
Sono professionalità e lavori che si possono organizzare digitalmente, su una dimensione sovra nazionale per raggiungere obiettivi assegnati, auto assegnati o codeterminati, che soffrono la burocrazia e la compartimentazione delle organizzazioni, ma che fuori dalle aziende si scontrano con un insufficiente accesso ad opportunità, risorse finanziarie, tecnologia e competenze, e con rilevanti difficoltà nell’interfacciarsi con la pubblica amministrazione, con i servizi pubblici al lavoro e con il sistema della rappresentanza.
Non sono manager tradizionali, non sono imprenditori, non sono semplici esecutori. Disegnano, risolvono, creano, gestiscono, analizzano e collaborano. Non hanno una mansione stabile e precisa, non ha senso pagarli per il tempo che passano in ufficio ma sono fondamentali per creare valore sia nel settore privato che pubblico.
Lavoro digitale, una situazione ancora di limbo
Attualmente questi lavoratori e le aziende che li impiegano si trovano in una specie di “limbo” in cui devono scegliere fra lavoro autonomo, micro imprenditoria, contratti di settore e para subordinazione (si possono includere nel novero anche dottorandi e assegnisti di ricerca), senza che le dinamiche del loro lavoro siano del tutto aderenti a queste forme contrattuali, e con rilevanti difficoltà di coordinamento e di gestione amministrativa.
Nei primi due casi mancano stabilità, tutele e accesso alle informazioni, nel secondo, semplicità e snellezza operativa, nel terzo si aggiunge uno stato di precarietà e in alcuni casi di irregolarità.
Quanti sono i lavoratori che troviamo in questa situazione?
Non è semplice stabilire quante micro PMI, P.iva, contratti di lavoro subordinato, di dottorato e co.co.co sono il frutto più del disagio rispetto agli istituti esistenti che non di un’effettiva libera scelta, ma l’impressione è che si tratti di centinaia di migliaia di persone e di altrettante aziende che li impiegano. A questi si aggiungono neet, donne con figli, senior, lavoratori qualificati che si devono spostare all’estero per trovare opportunità professionali adeguate (si parla di circa 100.000 persone l’anno).
Quante le aziende che non riescono a gestirli in modo adeguato?
Quante sono le aziende, in particolare PMI, che non hanno strumenti e risorse adeguate a competere nel contesto tecnologico globale e mancano di know how e competenze per gestire con successo la trasformazione digitale, fornendo servizi, salari e tutele idonee ai lavoratori della conoscenza?
I dati sullo skills mismatch e sulla carenza di competenze digitali sono una prima indicazione significativa (secondo lo studio Unioncamere il 53% dei profili risultano non facilmente reperibili e secondo l’indice Desi quasi un’azienda su 2 non ha una presenza online adeguata).
Quante le aziende, anche di grandi dimensioni, che non utilizzano al meglio il proprio capitale umano?
I dati Gallup presentano uno scenario abbastanza preoccupante in cui lo scarso coinvolgimento è lo specchio di organizzazioni che faticano a rispondere alle aspettative del mercato e dei collaboratori. Con il 4% di persone che risultano essere “coinvolte” nel proprio lavoro, l’Italia occupa l’ultima posizione in Europa. Nel mondo la percentuale sale al 21%, dimostrando che c’è un problema strutturale non imputabile solo a comportamenti manageriali o a singole organizzazioni.
Queste tipologie di lavori non possono essere gestite efficacemente con il sistema della somministrazione di lavoro (Almeno non con la normativa, tecnologia e operatività attuale che privilegia filiali sul territorio e supporto al settore industriale), con forme contrattuali tradizionali, con livelli e mansioni, con permessi e timbrature, certificazioni e commissioni, né con il regime dei minimi o con detassazioni. Servono forme di regolazione e strumenti differenti che ingaggino, supportino e accompagnino questi lavoratori e le loro attività nel tempo.
Regolamentare il lavoro digitale: le aziende a piattaforma
La forma più adatta e moderna per una nuove regolazione di questa tipologia di lavori sono le piattaforme e più precisamente le “aziende a piattaforma”. Strumenti organizzativi con cui creare il giusto ecosistema per quelle iniziative imprenditoriali e quei lavoratori che vogliono competere in modo solido e sostenibile nei nuovi settori della tecnologia e dell’economia della conoscenza.
Oggi queste piattaforme vengono per lo più utilizzate da freelance che lamentano scarse tutele ed eccessiva competizione. Negli ultimi anni si è inoltre fatto molto dibattito sule piattaforme per rider e autisti, trascurando il contesto più ampio del lavoro digitale su piattaforma in particolare in ambito B2B.
E’ quindi necessario implementare una nuova regolazione del lavoro pubblico e privato tramite piattaforme tecnologiche (le aziende piattaforma non sono solo oggetti da regolare ma strumenti nuovi con cui regolare il mercato del lavoro e il rapporto fra aziende e aziende e aziende e lavoratori), insieme all’introduzione di un contratto specifico, valido idealmente a livello europeo, per quei lavoratori e quelle organizzazioni, per esempio startup tecnologiche, che operano tramite l’utilizzo di piattaforme.
Un contratto che consenta alle piattaforme di sostituire riferimenti e pratiche formalistiche con procedure snelle ed efficaci, di velocizzare il coordinamento dei progetti, di valorizzare il lavoro di qualità, di semplificare le procedure amministrative – si veda per esempio lavoratori internazionali e accesso a fondi per formazione e welfare, – di determinare con precisione costi e obiettivi, di abilitare l’accesso a competenze, servizi e opportunità su scala transnazionale e cross settoriale, rendendo la prestazione di lavoro, la sua organizzazione, coordinamento e retribuzione più semplice, misurabile, stabile e flessibile.
Una forma di regolazione nuova che consenta di creare un ecosistema di aziende e di fornitori di servizi che mettano a sistema dati, opportunità, formazione e tutele, condividendo responsabilità e supporto, facilitando collaborazione e coordinamento, superando la frammentazione, complessità e informalità del lavoro.
Contratto a piattaforma, una soluzione a vantaggio di lavoratori e aziende
Di questo nuovo contratto di lavoro di piattaforma, ed ecosistema collegato, di cui scriveremo caratteristiche, problemi e opportunità, si avvantaggerebbero innanzitutto le aziende italiane, che potrebbero attrarre e gestire competenze qualificate in un contesto più stabile e competitivo. In questi ultimi mesi le grandi piattaforme tech hanno licenziato centinaia di migliaia di lavoratori dalla sera alla mattina lasciandoli senza reddito e tutele dimostrando che il problema della regolazione del lavoro anche nei in settori tech sia tutt’altro che risolto anche in USA. E si avvantaggerebbero le stesse istituzioni che avrebbero una contribuzione più robusta e un mercato del lavoro più moderno e produttivo.
Si avvantaggerebbe la società, che costruirebbe forme di lavoro più solide per famiglie e comunità e infrastrutture operative più efficaci e flessibili per la realizzazione di progetti pubblici e privati: si veda la notevole difficoltà della PA italiana nell’intercettare professionalità ad alto contenuto professionale e tecnologico.
Non si tratta solo di rappresentare questi nuovi lavoratori ma di dare un orizzonte chiaro a nuove aziende e organizzazioni che possano sperimentare modelli di produzione e operatività nuovi, più produttivi, innovativi e inclusivi in quei settori in cui la forza lavoro non è uno dei fattori di produzione ma il fattore più importante e decisivo.
La tecnologia è una risorsa, non un nemico
La tecnologia, se ben progettata, regolata e impiegata in una impresa ben organizzata non toglie tutele ma rende realistiche e sostenibili quelle previste dai contratti. Oggi il valore della tecnologia nel lavoro viene spesso limitato e ostacolato, mentre dovrebbe essere utilizzato per sperimentare, semplificare la normativa e le pratiche aziendali mettendo a frutto il potenziale di creatività e passione delle nostre persone.
In questo limite, molto italiano, ed in parte europeo, si nasconde una delle cause dei problemi del mercato del lavoro, delle politiche attive, della bassa produttività nel settore dei servizi, della disuguaglianza e del mancato sviluppo dell’economia della conoscenza.
Il nostro paese e la UE hanno dimostrato di saper intervenire per correggere i problemi, ora devono dimostrare di saper preparare per tempo il futuro del lavoro pubblico e privato.
Da questo punto passa una quota importante delle possibilità di crescita e sostenibilità del nostro sistema.