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La sharing economy che non funziona: 4 casi da non imitare

Lending Club, piattaforma per prestiti tra privati, va male in Borsa. Homejoy, la Helpling americana, non ha funzionato, così come Quirky, piattaforma per finanziare invenzioni. E SnapGoods, piazza virtuale per scambiarsi utensili, è svanita nel nulla. Esempi di economia della condivisione che ha fallito. Ecco perché

Pubblicato il 14 Apr 2016

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La più nota piattaforma di prestiti tra privati del mondo è crollata in Borsa, la Helpling americana ha chiuso, la startup di scambio utensili tra vicini è come svanita nel nulla, la piattaforma degli inventori è fallita, forse a causa delle proposte troppo strambe: sono alcuni casi esemplari di realtà della sharing economy (intensa nel suo senso più ampio di economia della condivisione, termine che viene analizzato qui) protagoniste di momenti di gloria ai quali è seguito un brusco declino.

Come per tutte le cose, anche in economia ci sono le mode, e quella della sharing economy lo è stata e in parte lo è ancora. È indubbio che il fenomeno esista, si stia affermando nelle sue varie modalità in tutto il mondo e vada perciò analizzato e compreso a fondo. Non è detto però che tutto ciò che afferisce all’economia della condivisione sia positivo, come ritengono i suoi più sfegatati fan, né che, al contrario, sia un modello disruptive in grado di travolgere tutti i modelli pre-esistenti con conseguenze esclusivamente negative, come tendono a pensare i nostalgici della old economy. In questo contesto è interessante prendere in esame le vicende di alcuni big della sharing economy che non ce l’hanno fatta o che navigano in cattive acque, per cercare di capire cosa non ha funzionato ed evitare di ripetere gli stessi errori. Ecco quattro esempi.

Lending Club, crollo al Nasdaq – La più importante piattaforma per prestiti peer-to-peer tra privati del mondo ha perso circa i tre quarti della capitalizzazione in un anno. Quotata al Nasdaq a dicembre del 2014 (è stata la più grande Ipo tecnologica di quell’anno), è crollata da una capitalizzazione di oltre dieci miliardi a tre dei primi mesi del 2016. Eppure tra i suoi soci c’è anche il presidente emerito di Harvard ed ex ministro del Tesoro Usa, Larry Summers, che in passato ha affermato: “Lending Club ha il potenziale per trasformare profondamente le banche tradizionali nei prossimi dieci anni incontrando il bisogno dei consumatori e delle famiglie”. Come azionista Summers ha guadagnato almeno 28 milioni di dollari, ma ai risparmiatori è andata molto peggio: chi ha partecipato all’Ipo del 2014 ha perso il 48,7%, chi è entrato nel primo giorno di contrattazioni addirittura il 67%. Lending Club è operativo da una decina di anni. Perché non sta più funzionando, almeno in base alle reazioni del mercato azionario? Secondo qualche osservatore il problema principale starebbe nel deterioramento dei crediti. Alcuni dei creditori iniziano a non pagare e, in caso di mancato pagamento, la crisi si trasmette direttamente ad altre famiglie. Una reazione a catena che non fa bene alla piattaforma ma nemmeno al sistema economico che vi ruota intorno. Altri operatori del settore ritengono invece che si tratti di un calo fisiologico e contingente, ribadendo la loro fiducia nella crescita del settore fin-tech.

Homejoy, un monito per Helpling & Co – La startup di San Francisco, classico esempio di economia on demand, metteva a disposizione operatori delle pulizie così come oggi fa Helpling, piattaforma per la ricerca e la prenotazione online di addetti alle pulizie nata in Germania e presente da un anno anche in Italia, e, in dimensioni più ridotte, Easyfeel, startup innovativa nata a Milano. Ma Homejoy è fallita dopo circa due anni. Cosa non ha funzionato? I suoi founder sostengono che il nodo è stato principalmente di tipo legale: la società considerava i suoi cleaner fornitori indipendenti e non dipendenti. Ma quattro ex operatori le hanno fatto causa, ritenendo evidentemente di poter dimostrare che la loro prestazione professionale era assimilabile a quella di un lavoratore dipendente. Tuttavia, secondo gli osservatori, erano altre le cose che non funzionavano: costi in crescita, scarsa fidelizzazione del cliente, espansione internazionale molto costosa, problemi di natura tecnologica e fuga dei migliori addetti verso accordi diretti col cliente. Eppure, per non disdire un appuntamento con un utente il giorno del Ringraziamento 2013, la co-founder e Ceo Adora Cheung si recò personalmente a fare le pulizie presso l’abitazione della persona che aveva richiesto il servizio. Segno che credeva fortemente nel proprio business. Ma non è bastato.

Il mistero della startup sparitaSnapGoods è semplicemente “sparita”. Nata negli Usa nel 2010, era una piattaforma online che consentiva agli utenti di dare e prendere in affitto arnesi e utensili quali trapani, zaini o biciclette da altri nel vicinato e all’interno del network. Salutata come uno dei pionieri della sharing economy, ha chiuso dopo circa due anni, ad agosto 2012. Eppure, lamenta Steven Hill nel libro “Raw Deal: How the Uber Economy and Runaway Capitalism Are Screwing American Workers”, “se si cerca in una qualsiasi delle riviste tecnologiche sulla Silicon Valley, stranamente non si trova nessun articolo che parli del fallimento di SnapGoods. È semplicemente sparita – puf! – senza lasciare traccia, per continuare a vivere nell’immaginazione dei promotori della sharing economy”. E anche in un articolo di Sara Kessler sulla rivista digitale “The Fast Company”, risalente all’anno scorso, si fa notare che alcuni giornalisti citavano SnapGoods come ancora attiva a un anno dalla chiusura. In effetti, in Rete, si trova poco o niente sulle motivazioni che ne hanno causato il fallimento. Cliccando su Snapgoods si viene rimandati a un altro sito dove si legge che Snapgoods è oggi Simplist: “Semplici liste di persone che vale la pena assumere per migliorare il proprio business”. Decisamente una società con obiettivi diversi dalla precedente. Intervistato su Twitter da Steven Hill, l’ex Ceo di SnapGoods, Ron J. Williams, si è limitato a dire “abbiamo comunicato ai nostri 50mila utenti che avevamo del pesce più grande da friggere”. Senza specificare altro.

Quirky, “vittima” delle invenzioni degli utenti – L’anno scorso è “deceduta” Quirky, piattaforma fondata a New York nel 2009 da Ben Kaufman, allora 22enne, che consentiva agli utenti di votare le invenzioni da finanziare. È scomparsa dalla scena dopo aver bruciato 185 milioni di dollari di venture capital. Non una cosa da poco, dunque. Nel suo momento di massimo splendore, riceveva migliaia di idee alla settimana da oltre mezzo milione di utenti e approvava un gruppo selezionato di prodotti destinati allo sviluppo, per poi inviare i prodotti sviluppati ai partner del retail. Aveva solide collaborazioni con Amazon, il Museo di arti moderne e altre società, e continuava ad assumere personale. Cosa non ha funzionato? Difficile dirlo. Alcuni sostengono che è stato speso troppo denaro per sviluppare oggetti che non sarebbero mai riusciti ad approdare sugli scaffali: per esempio uno specchio per il bagno in grado di eliminare il vapore generato dalla doccia calda o un set di ruote per trasformare qualsiasi oggetto in un automezzo telecomandato.

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