INNOVATION PILLS

La radice della scalabilità: fare (anche) cose che non scalano ma che insegnano molto



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In ogni impresa arriva il momento della scalabilità: fare le cose sempre più in grande è una fonte di efficienza. Ma fare innovazione significa anche fare cose che non scalano. Perché quel che si apprende nelle prime fasi ha un valore enorme. Anche per crescere, dopo

Pubblicato il 3 ott 2024

Andrea Contri

Innovation Director



scaleup, scalabilità

Arriva sempre il momento della scalabilità.

Immaginiamo che, sulla falsariga delle prime Innovation Pills, abbiate identificato nella vostra impresa una sfida di business su cui concentrarvi, definito il challenge statement, ottenuto dai vari dipartimenti l’accesso alle risorse necessarie per partire, e identificato alleati naturali in giro per l’organigramma.

L’imperativo (e il rischio) della scalabilità

Appena comincerete a lavorare sulla vostra iniziativa di innovazione, vi troverete immediatamente ad affrontare l’imperativo della scalabilità. Alla radice di ogni impresa, infatti, c’è un fortissimo incentivo a fare le cose il più in grande possibile, perché le economie di scala sono una fonte preziosa di efficienza: ad esempio, in contesti industriali, avere più clienti permette di lavorare con lotti di produzione più grandi, che a loro volta offrono maggiore leva negoziale nei confronti dei fornitori, e via dicendo.

Raggiungere una elevata scala dimensionale è quindi un obiettivo fondamentale, ma le innovazioni possono essere molto fragili nelle fasi embrionali, e non c’è modo più veloce di soffocarle che sovraccaricarle di aspettative, come si rischia di fare se si segue lo stesso processo decisionale normalmente applicato ai progetti del core business (basato sull’ampia disponibilità di dati storici e sull’uso efficiente degli asset aziendali).

Ciò non vuol dire che non vada perseguita una strategia di crescita aggressiva. Piuttosto, significa che quando si sperimenta qualcosa di nuovo è probabile che la crescita iniziale arriverà da attività inerentemente non scalabili, come ben descritto in un fondamentale saggio di Paul Graham, il fondatore di Y-Combinator (l’acceleratore di startup di maggior successo al mondo).

Fare innovazione significa anche fare cose che non scalano

Fare innovazione richiede un forte appetito per l’iterazione: nelle fasi iniziali la cosa più importante è costruire qualcosa, metterlo nelle mani del proprio pubblico, raccoglierne i riscontri e usarli per migliorare la prossima versione.

I benefici di questo processo sono amplificati da un feedback loop rapido ed efficace: fare di tutto per identificare e portare a bordo i primi clienti, per poi estrarre aggressivamente la loro prospettiva su cosa ha valore e cosa no. Nel suo saggio, Graham porta esempi concreti di attività che non scalano ma che accelerano l’apprendimento: reclutare personalmente i primi target, coccolarli con biglietti di ringraziamento scritti a mano o altre personalizzazioni estreme, offrirsi di scattare foto professionali per i primi appartamenti elencati su Airbnb, addirittura assemblare manualmente i primi lotti di prodotti. Non sono esempi di masochismo, ma di cura maniacale per l’esperienza finale che, se non è sufficientemente di valore, non attrarrà mai abbastanza clienti da creare l’happy problem della scalabilità.

Il valore di quel che si apprende nelle prime fasi

Chiaramente non tutto è malleabile come i servizi software che per primi hanno avuto successo così ma, se si applica in modo ragionato, questo principio risulta piuttosto trasferibile anche ad altri settori.

In particolare, l’intuizione più preziosa è che gli apprendimenti raccolti nelle prime fasi, se ben codificati, hanno un valore cumulativo lungo il ciclo di vita dei progetti di innovazione, seguendo la stessa dinamica degli interessi composti.

Per fare un esempio legato alla mia esperienza, una pratica che ho appreso quando lavoravo in Google è il dogfooding, ovvero l’abitudine di testare in prima persona i software sviluppati internamente, servendosene a tutti gli effetti come un utente finale.

Molti anni dopo, mi è tornata estremamente utile anche per sviluppare nuove funzionalità e modelli di business legati a prodotti fisici come gli elettrodomestici: utilizzando i primi prototipi a casa nostra, io e i miei collaboratori abbiamo potuto scoprire frizioni nascoste, comportamenti inattesi e punti di rottura dei processi.

Questo ci ha permesso di risparmiare tempo e denaro in successive rilavorazioni hardware, e di costruire una knowledge base per il servizio di assistenza clienti che si è dimostrata di grande valore in fase di lancio.

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