E se l’arma più potente conto il Covid-19 fosse l’evoluzione (e quindi l’innovazione) degli standard igienico-sanitari nel trattamento degli animali selvatici?
Molte delle malattie che ci hanno terrorizzato negli ultimi anni hanno origine da un interscambio tra uomo e animale in condizioni igieniche inadeguate. L’Hiv deriva dal virus di immunodeficienza delle scimmie (SIV) in Africa. Ci sono evidenze scientifiche che, a contrarlo per primi, siano stati esseri umani impegnati in attività di caccia e di vendita di carne e pelli di scimmia.
In Africa l’infezione da Ebola è stata documentata a seguito di contatto dell’uomo con scimpanzé, gorilla, pipistrelli della frutta (Pteropodidae), scimmie, antilopi e porcospini trovati malati o morti nella foresta pluviale.
La Sars, o meglio il coronavirus (SARS-CoV) identificato come l’agente eziologico della SARS, è arrivato all’uomo passando da diverse specie animali, tra cui pipistrelli, zibetto dell’Himalaya (Paguma larvata) e procione (Nyctereutes procyonoides), e la trasmissione tra le varie specie animali e l’uomo si suppone sia avvenuta nei mercati di animali vivi nella provincia cinese del Guangdong.
L’influenza aviaria, in quasi tutti i casi, si trasmette attraverso contatti diretti con volatili infetti (pollame da allevamento, ad esempio), superfici contaminate o materiali contaminati (escrementi di uccelli o piume).
Il MERS-CoV è un altro coronavirus zoonotico, trasmesso tra gli animali e le persone. Gli studi hanno dimostrato che l’uomo si contagia attraverso il contatto diretto o indiretto con i dromedari infetti.
Sono solo alcuni esempi di malattie scaturite da uno sfortunato incontro tra uomo e animale, ma ce ne sono molte altre. Virologi ed epidemiologi saprebbero certamente descriverle e analizzarle meglio di noi.
E il coronavirus, o meglio il Covid-19? Come è nato e come si è sviluppato questo virus che sta invadendo il mondo?
Ancora non è sufficientemente noto, i ricercatori ci stanno lavorando, ma, nel mare magnum delle ipotesi, emergono espressioni ricorrenti: “mercato del pesce”, “pangolino”, “pipistrello”. Stiamo parlando di animali, insomma. O meglio: dell’interazione uomo-animale.
Il nuovo coronavirus 2019-nCoV, che l’OMS ha deciso di chiamare SARS-CoV2, isolato nell’uomo per la prima volta alla fine del 2019 – dice l‘Istituto superiore di Sanità – sembra essere originato da pipistrelli. Si ipotizza però che la trasmissione non sia avvenuta direttamente dai pipistrelli all’uomo, ma che vi sia un altro animale ancora da identificare che ha agito come una specie di trampolino di lancio per trasmettere il virus all’uomo. In che modo?
La rivista scientifica “The Lancet” , come già l’Oms, ha smentito che l’origine del virus sia al mercato di Wuhan, detto anche “wet market”. Ma quanto sono pericolosi questi mercati per la diffusione di virus dagli animali agli uomini?
Ma cosa sono questi wet market?
Un wet market, o “mercato bagnato” (letteralmente chiamato così perché vi scorre il sangue), è un tipo di mercato particolarmente diffuso nel Sudest asiatico e in altri Paesi in via di sviluppo nel mondo, dove gli animali vengono tenuti vivi, stipati dentro alle gabbie e poi macellati sul posto, per consentire agli acquirenti di avere carne “fresca” (e per sopperire alla mancanza di frigoriferi). Può vendere carne fresca, pesce, prodotti e altri beni deperibili ed è distinto dai “mercati secchi”, dove vengono venduti beni durevoli come tessuti ed elettronica. Nei wet market cinesi si trova pesce, ma anche serpenti, procioni, istrici, cervi. Anzi, queste sono soltanto alcune delle specie presenti sul posto, stipate all’interno di piccole gabbie, a stretto contatto con acquirenti e proprietari di negozi. In questo filmato ottenuto dalla CNN, precedentemente pubblicato su Weibo da un cittadino e poi eliminato dalla censura governativa, si vedono alcuni immagini del wet market di Wuhan: animali di tutti i tipi, in gran parte esotici, assiepati uno accanto all’altro e a pochi centimetri dagli umani, e macellati sul posto, talvolta per terra, senza precauzioni di natura igienico-sanitaria. L’esistenza di mercati di questo tipo, in Cina, è confermata anche semplicemente dai racconti di turisti e viaggiatori, che d’altra parte sottolineano l’estrema pulizia di luoghi pubblici di altro genere. Lungi da noi offendere il popolo cinese, come ha fatto di recente qualche sprovveduto in maniera inappropriata e fuori contesto. Ma è un fatto che, nella Cina continentale, centinaia di mercati simili offrono una vasta gamma di animali esotici per vari scopi (cibo, medicinali, ornamenti). Ma sono gli stessi cinesi ad ammettere che il pericolo di un focolaio si presenta quando numerosi animali esotici provenienti da ambienti diversi sono tenuti a stretto contatto tra loro.
“Questi animali hanno i loro virus,” ha detto il virologo dell’Università di Hong Kong Leo Poon. “Questi virus possono saltare da una specie all’altra, quindi quella specie può diventare un amplificatore, che aumenta notevolmente la quantità di virus nel wet market“.
— Da un un rapporto tra animale e uomo in condizioni igieniche inadeguate possono scaturire pericolose patologie
— È essenziale osservare sempre le più strette norme igienico-sanitarie e gli standard internazionali nella custodia, cura, macellazione e conservazione degli animali.
Come ha scritto la virologa Ilaria Capua: “Covid 19 è figlio del traffico aereo ma non solo: le megalopoli che invadono territori e devastano ecosistemi creando situazioni di grande disequilibrio nel rapporto uomo-animale.”
La domanda è: può un gigante economico come la Cina, che è la prima o seconda potenza economica mondiale (dipende da come si valutano alcuni indicatori economici). permettersi di non rispettare gli standard internazionali nell’industria della fauna selvatica?
Covid-19: e se l’innovazione più rivoluzionaria fosse il rispetto degli standard igienico-sanitari?
Lo sapeva bene Ignaz Philipp Semmelweis (Budapest, 1818 – Vienna 1865), medico ostetrico ungherese, che, mentre lavorava nella clinica ginecologica di Vienna, si accorse che le partorienti morivano a ripetizione, una dietro l’altra. Si interrogò e capì: l’altissima mortalità per febbre puerperale era dovuta a infezioni trasmesse alle pazienti dalle mani dei medici e degli studenti di medicina che, dalla sala dove praticavano le autopsie, si recavano poi a visitare le gestanti o le puerpere. Bastò che Semmelweis imponesse agli studenti una scrupolosa pulizia delle mani e la disinfezione con un antisettico per far crollare di colpo l’indice di mortalità dovuto a febbre puerperale dal 12,2% allo 0,5%. L’innovazione fu: lavarsi le mani. Un’innovazione che all’epoca non fu compresa (Semmelweis fu persino dileggiato) e che oggi ci salva la vita. Anche, potenzialmente dal coronavirus.
E se la Cina innovasse le abitudini di consumo alimentare?
Quale sia il cuore del problema l’hanno intuito anche le autorità cinesi, che, a seguito dello scoppio dell’epidemia di Covid-19, hanno promosso un divieto permanente di consumo e allevamento di animali selvatici, che dovrebbe essere tradotto in legge entro la fine dell’anno. Una mossa inevitabile dopo che, improvvisamente, la Cina è tornata ad essere un Paese con “standard sanitari non compatibili” con il mondo occidentale.
Interviene l’Onu: preservare ecosistemi e biodiversità
Alla fine si è mosso anche l’Onu. Il capo della Convenzione sulla biodiversità delle Nazioni Unite, Elizabeth Maruma Mrema, ha chiesto un divieto globale per i mercati che vendono fauna selvatica viva o morta, proprio allo scopo di prevenire future pandemie. “Preservare ecosistemi e biodiversità – ha spiegato – ci aiuterà a ridurre la prevalenza di alcune di queste malattie Il modo in cui coltiviamo e utilizziamo il suolo, in cui proteggiamo gli ecosistemi costieri e in cui trattiamo le nostre foreste rovineranno il futuro o ci aiuteranno a vivere più a lungo”.
Ma porre termine al commercio di fauna selvatica in Cina non sarà facilissimo, nonostante l’emergenza Covid-19. Le radici culturali dell’uso cinese di animali selvatici sono profonde: non solo vengono ritenuti una prelibatezza alimentare (seppure l’interesse sia circoscritto ad alcune aree della sterminata nazione), ma sono impiegati nella medicina tradizionale, nell’abbigliamento, per gli ornamenti e persino come animali domestici.
Intanto a inizio aprile il ministero dell’Agricoltura cinese ha deciso che non sarà più permesso mangiare cani e gatti. Gli animali domestici sono usciti entrambi per la prima volta dall’elenco ufficiale di quelli che possono essere macellati e consumati, nel quale restano 18 specie più tradizionali tra cui suini, bovini, ovini, pollame e cammelli.
Gli esperti di sanità pubblica vanno oltre e chiedono a Pechino di cogliere questa opportunità cruciale per colmare determinate lacune e iniziare a cambiare l’atteggiamento culturale. Se Paesi africani poverissimi, e privi di mezzi e infrastrutture, possono avere comprensibili difficoltà nell’applicare standard igienico-sanitari nella lavorazione e nel consumo di animali, una enorme potenza economica come la Cina semplicemente non può. C’è in ballo l’epidemia di Covid-19. Ci sono in ballo ci sono milioni di vite umane.
(Articolo aggiornato al 29/04/2020)