INNOVATION DETECTIVE

La prevenzione contro il cancro e la ricerca dei complici che frenano l’innovazione

Capita spesso, quando si lavora nell’innovazione, che i progetti falliscano perché – pur risolvendo problemi concreti e portando benefici tangibili – creano altri problemi, percepiti come più gravi. Come succede nel caso del prodotto di una società biotech che non funziona sul mercato

Pubblicato il 13 Ott 2022

Photo by Hal Gatewood on Unsplash

Il mio scetticismo feroce mi ha sempre spinto a concepire il mercato come un insieme di persone pronte a ricevere un beneficio a fronte di un problema tangibile, e che questo insieme rappresenta di fatto una selezione di comportamenti omologabili e caratteristiche comuni. Chi si spiega le scelte dei consumatori come il risultato dell’influenza di qualche guru del marketing che agita il mestolo e crea la pozione in grado di generare il bisogno irrefrenabile di qualcosa, ecco queste precise posizioni, mi fanno venire il disgusto. Le considero retrograde, antiprogressiste, ambigue, al limite della superstizione, nonché appiccicate con il chewing gum a luoghi comuni in cui è facile abitare, come il fatto che Steve Jobs ha creato il bisogno dell’i-Phone. Quando mi sbattono in faccia questa leggenda come se fosse una prova, da atea impenitente quale sono, arrivo ad alzare gli occhi al cielo sperando nella discesa del grande esorcista.

Ma si sa che il chewing gum resiste per lustri sotto i banchi di scuola, e a volte l’unico modo per sbarazzarsene è gettare tutto il banco. D’altra parte, è proprio quello che capita in centinaia di aziende. Si appiccicano un sacco di chewing gum sotto prodotti e servizi concepiti con la fiducia di generarne prima o poi il bisogno, e poi si butta tutto dalla finestra quando lo strato diventa così lurido da rendere il tutto molto imbarazzante.

“Se è vero quello che dici”, fa il responsabile marketing di una società di biotecnologie, “allora come mai le soluzioni farmaceutiche non si vendono da sole? In fondo risolvono un problema e generano un evidente beneficio, dimostrato scientificamente, validato da un protocollo stringente e molto costoso… eppure!”

Io farfuglio qualcosa che ha a che fare con il tema della concorrenza e con il fatto che la sanità è un ambiente multi-stakeholder, quindi non basta risolvere un problema per i destinatari finali, lo devi anche risolvere per i medici, per gli infermieri… ma lui non sembra ascoltare. Non gli sto dicendo nulla di nuovo, non è mica nato ieri. E ha ragione.

“Prendi un tema facile facile. La prevenzione dei tumori. Il male del secolo. Esistono tecnologie molto avanzate che permettono di identificarne la radice genetica e quindi dirti se tu hai o non hai una probabilità notevole di sviluppare un tumore grave nel corso della tua vita. La conoscenza è potere, ti permette di fare prevenzione, applicare protocolli di sorveglianza e insomma innalzare il tuo indice di sopravvivenza. Ti risolve un problema importante, che riguarda la tua stessa vita, non trovi?”

“Ebbene?”

“Ebbene questa tecnologia fa molta difficoltà a penetrare il mercato. Ha un tasso di utilizzo bassissimo, benché sia relativamente accessibile e in alcuni casi anche gratuita, specialmemte per le donne. Ci stiamo chiedendo come muoverci sul fronte del marketing, ma ovviamente sono temi delicati…”

Per dovere di cronaca: avrei anche potuto chiamarmi fuori, chiamare un collega ed invitarlo a raccogliere il caso al posto mio. Ero troppo coinvolta. Infatti conoscevo questa tecnologia: aveva salvato me e molti dei miei parenti che non erano riusciti a trarne vantaggio erano morti. Nel mio mestiere queste le chiamiamo “vittime in senso stretto”. Ma proprio per questo nessuno sapeva meglio di me che questa volta non si poteva rischiare di sbagliare e buttare qualcosa fuori dalla finestra, perché si trattava di un qualcosa troppo importante.

“Bene” dico io, riprendendo il filo di un discorso che si era svolto prevalentemente nella mia testa ,“non lasciamoci trascinare da aspettative e giudizi soggettivi. Mai come in questo caso l’unica cosa che conta sono le evidenze. Dobbiamo tornare ai dati, duri e puri. La realtà deve rimanere sempre sotto gli occhi di tutti”.

“Parliamo di dati, si!”, si accende il mio interlocutore. “Ce ne sono a non finire e non li teniamo per noi! Proprio settimana scorsa abbiamo divulgato su tutti i giornali nazionali i risultati di un recentissimo test su scala nazionale: in un insieme di donne con una particolare forma tumorale, che hanno usato la nostra tecnologia, ne erano sopravvissute più del …”

“Questi sono i dati che vuoi vedere tu”, lo interrompo io,“ e ti stanno dicendo che stai facendo una cosa buona, ma non bastano, sono troppo rischiosi! Io parlo degli altri dati! Io credo che dovremmo indagare in profondità tra le pieghe della scelta di non sottoporsi al test. Dobbiamo capire cosa succede nel lato buio della luna. Dobbiamo scoprire tutto quello che possiamo sugli alibi di queste donne”.

La situazione non mi era nuova. Era come quando conosci il responsabile di un crimine, lo incastri, lo porti in commissariato, eppure nel frattempo continuano a esserci vittime. Sono casi che fanno scoppiare la testa. A me danno i brividi, una specie di influenza, un fuoco che mi consuma dalla testa ai piedi. Eppure è proprio in questi frangenti che occorre rimanere lucidi. Occorre tornare ai blocchi di partenza. Se le vittime continuano non significa che il male identificato non sia tale, ma che probabilmente esiste un complice o una serie di complici, che continuano ad uccidere, in questo caso, un sacco di donne.

È stata un’indagine febbrile, delicata, struggente. Abbiamo trovato medici disinformati e arroganti, che stabilivano se proporre o meno l’opportunità al paziente, sulla base di valutazioni socio-psicologiche che esulavano dal proprio perimetro di competenze. Ma c’erano altri complici, più crudeli. Il più crudele di tutti era la paura di non riuscire ad affrontare i risultati del test, di non avere la forza di gestirne le conseguenze. Per sé e per i propri familiari. “È terribile sapere… è un po’ come ricevere una condanna a vita, come la gestisci?”, dice Ada, 35 anni, che ha appena perso la zia per un tumore che potrebbe colpire anche lei. Oppure: “Mi sento in colpa… ho paura di sentirmi una untrice nello spargere questo gene tra tutti i miei familiari, meglio non sapere”. Oppure: “Ho paura dei protocolli di prevenzione, meglio non sapere, e se verrà, si vedrà.”

I complici, cosiddetti, erano i problemi di secondo grado. Capita molto spesso quando si lavora nell’innovazione, che i progetti falliscano perché – pur risolvendo problemi concreti e portando benefici tangibili – creano altri problemi, percepiti come più gravi ancora, più insopportabili, senza soluzione. In questo caso la strada è solo una. Tenere in gattabuia il primo indiziato e dare la caccia ai complici come se fossero loro i principali colpevoli. Anche se sono più sfuggenti, anche se non si posseggono tutti gli strumenti per estinguerli. Ignorarli, solo perché sono diversi, o lasciarne la risoluzione ad altri, in fondo, è una forma di complicità.

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Irene Cassarino
Irene Cassarino

Irene Cassarino, ingegnera di formazione, PhD in Gestione dell’Innovazione, è CEO e fondatrice di The Doers, ora parte del gruppo Digital Magics. Ha dedicato tutta la sua vita professionale alla ricerca di nuovi mercati, lavorando con più di 200 startup e decine di grandi aziende italiane e internazionali.

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