L'ANALISI

La crisi delle Big Tech: come è iniziata, cosa sta succedendo, cosa dicono i numeri

Nel 2022 hanno cominciato a licenziare le startup. Poi i colossi tecnologici le hanno imitate. Fino alla raffica di licenziamenti di oggi: almeno 81.200 nelle principali Big Tech, da Meta-Facebook a Twitter, da Google a Amazon. Cosa sta succedendo e perché

Aggiornato il 20 Mar 2023

Crisi nelle big tech

C’è del marcio in Silicon Valley? Sicuramente, oltre al caso “Silicon Valley Bank”, ci sono licenziamenti, tanti licenziamenti, nelle Big Tech, i colossi tecnologici finora simbolo di successo internazionale. L’ultimo annuncio in ordine di tempo è quello del gruppo Meta (che comprende Facebook, Instagram e Whatsapp): il 14 marzo 2023 ha comunicato il licenziamento di altri 10mila dipendenti su un organico di poco meno di 80mila persone. Si è trattato del secondo colpo di scure dopo quello inferto il 9 novembre 2022, quando la stessa Meta aveva detto addio a circa 11mila dipendenti, pari al 13% della forza lavoro complessiva. Il più grande taglio di posti di lavoro nella storia dell’azienda.

Il 4 novembre 2022, Elon Musk, da poco diventato nuovo proprietario di Twitter, aveva comunicato il licenziamento in massa di circa 3750 persone, più o meno la metà della forza lavoro del social network. Lo stesso giorno Lyft, la rivale di Uber,  aveva licenziato 650 dei suoi 5.000 addetti e Stripe (software per pagamenti elettronici) aveva messo alla porta 1.120 dipendenti. Il 14 novembre 2022 Amazon aveva annunciato il taglio di 10.000 posti di lavoro. A gennaio 2023 i nuovi numeri: sono 18mila i posti  che il colosso dell’eCommerce intende cancellare per far fronte ai venti contrari di un mercato in recessione. A marzo 2023 un ulteriore annuncio: se ne dovranno andare altri 9000 lavoratori, principalmente nell’unità cloud, in Amazon Web Services, nell’area relativa a Twitch e nei dipartimenti risorse umane e pubblicità.

A settembre 2022 Microsoft aveva mandato via 1000 persone. A gennaio 2023 un annuncio ben più grave: 10mila dipendenti da spedire a casa entro la fine del terzo trimestre. Una riduzione della forza lavoro inferiore al 5 per cento, precisa l’azienda.

Ad agosto 2020 Netflix aveva dato l’addio a 500 addetti. Nel corso dell’anno Snapchat aveva licenziato un migliaio di persone e Booking oltre 3000.

Apple si era tenuta finora fuori dal “ciclone licenziamenti”. Ma, dopo che Tim Cook si è auto-ridotto lo stipendio in risposta alla crisi economica del settore dell’hi-tech, a marzo 2023 Bloomberg ha scritto che, proprio per evitare di licenziare, l’azienda avrebbe bloccato le nuove assunzioni e gli stipendi dei suoi dipendenti, posticipando i bonus previsti per gli impiegati.

Dopo un’iniziale resistenza, anche Google ha ceduto, annunciando a gennaio il taglio di 12.000 posti di lavoro, pari a circa il 6% del totale. Ha inoltre comunicato ai dipendenti che ci saranno meno promozioni ai livelli senior quest’anno rispetto all’anno passato.

Anche Salesforce si adegua al nuovo scenario di mercato decidendo per una riduzione sostanziosa dell’organico: la società, che a gennaio 2022 contava su più di 73mila dipendenti, ha annunciato un piano di ristrutturazione che prevede il taglio del 10% della propria forza lavoro, oltre a un ridimensionamento delle sedi e delle proprietà immobiliari.

La crisi delle grandi aziende tecnologiche colpisce da vicino anche l’Italia: il 28 febbraio 2023 Italtel, multinazionale dell’Information&Communication Technology, a poche settimane dal Piano Industriale 2022-2026 al Ministero dello Sviluppo e alle parti sociali, ha aperto la procedura di licenziamento collettivo per 123 dipendenti su 880, spiegando che “gli organici non sono più in linea con il mutato scenario aziendale e di mercato”.

I numeri della crisi Big Tech

Ricapitolando, nell’arco di tempo che va dalla seconda metà dell’anno scorso ad oggi, questi sono i numeri dei licenziamenti nelle principali Big Tech:

Meta: 21.000

Twitter: 3700 a novembre + 200 a gennaio — 3900

Amazon: 18.000 + 9000 a marzo

Microsoft: 10.000

Google: 12.000

Salesforce: 7.300

In tutto si tratta di almeno 81.200 persone, un tempo impiegate in grandi aziende tecnologiche, che oggi si trovano disoccupate e costrette a cercare una nuova occupazione. In pratica l’equivalente della popolazione di una città di provincia italiana.

Dopo il fenomeno della “Great Resignation” dovuta alla pandemia, siamo alle prese con un nuovo trend: “The Great Dismissal”. È innegabile che una grande crisi è in atto. Come è cominciata? Cosa l’ha scatenata? Cosa potrebbe succedere ancora? Proviamo a ragionare sull’argomento, prendendo in esame numeri e scenari.

Come è cominciata la crisi delle Big Tech: le startup “pioniere” anche nei licenziamenti

Diversamente da quanto si sarebbe potuto immaginare, la pandemia da Covid19 iniziata nel 2020 non ha avuto un impatto negativo sulle imprese tecnologiche innovative. Al contrario, durante l’emergenza pandemica, si è verificata un’accelerazione della digitalizzazione, un balzo dell’eCommerce e le quotazioni di varie startup high-tech hanno raggiunto livelli record, ottenendo anche ingenti finanziamenti. Il ritorno alla normalità ha contribuito a frenare il trend positivo. Un caso esemplare è quello della startup Peloton, fornitrice di una indoor bike pensata per essere una mini-palestra casalinga, molto ricercata durante i lockdown, ma meno desiderata con il ritorno alla vita sociale, con conseguente crisi della società.

Ad avviare i licenziamenti nel mondo tecnologico sono state proprio le startup, pioniere in tutti i sensi, sia dal punto di vista della ricerca e dello sviluppo, sia, evidentemente, della percezione dei rapidi cambiamenti nel mercato. Secondo i dati di Layoffs.fyi, a maggio 2022 17mila persone impiegate a livello globale in startup hanno perso il lavoro, il 350% in più rispetto ad aprile. Il dato peggiore dall’inizio dell’emergenza da Covid19.

Perché le startup hanno cominciato a licenziare? Secondo un’analisi di Quartz, gli investitori avevano sovrastimato l’utilizzo da parte dei consumatori di alcuni strumenti e prodotti digitali. Inoltre, a causa dell’aumento dei tassi di interesse da parte delle banche centrali, le giovani imprese hanno cominciato a fare più fatica a chiedere, e ottenere, danaro. Di conseguenza, i titoli tecnologici sono crollati e gli investimenti nelle startup sono bruscamente scesi. Gli investitori hanno adottato maggiore cautela nell’erogazione di capitali, esortando al tempo stesso le società presenti nel loro portafoglio a preservare la liquidità.

Le ragioni della caduta

Come per una sorta di rapido contagio, con l’aumento dei licenziamenti nelle startup, anche le Big Tech come Meta, Twitter, Microsoft, Snap e Salesforce cominciato a congelare o rallentare le assunzioni. Le motivazioni storiche ed economiche dell’esplosione di una crisi mondiale sono note: il 24 febbraio 2022 la Russia ha invaso l’Ucraina, scatenando un conflitto con molteplici conseguenze sul piano umano, sociale ed economico. L’inflazione ha ripreso a crescere. I mercati borsistici hanno reagito negativamente e il valore delle azioni delle principali Big Tech è sceso o crollato. Le società di criprovalute hanno sperimentato una caduta ancora maggiore.

Cosa c’entra il fallimento della Silicon Valley Bank con la crisi delle Big Tech?

In un clima già carico di presagi negativi, a scatenare la tempesta perfetta è stato il fallimento, l’11 marzo 2023, della Silicon Valley Bank, la grande banca statunitense specializzata nel finanziamento di aziende high-tech, con particolare attenzione alle startup. Principale imputato di questo storico crac è la svalutazione dei titoli di Stato su cui la banca aveva investito e che hanno risentito dell’andamento dei tassi. Si è trattato del più grande fallimento nel mondo bancario americano dopo quello di Washington Mutual nel 2008.

I due fatti – il crollo di SVB e il ciclone licenziamenti nelle Big Tech – sono collegabili? Secondo alcuni osservatori sì, secondo altri meno. Chi li mette in relazione fa notare che entrambi sarebbero basati su errori di valutazione: in pandemia le aziende tecnologiche hanno sopravvalutato la spinta alla digitalizzazione (quindi investendo e assumendo in eccesso, per poi doversi ricredere), mentre SVB sarebbe stata egualmente superficiale nel non valutare adeguatamente il peso dell’aumento dei tassi di interesse nel contesto delle proprie attività, mirate a finanziare giovani società “avide” di capitali.

I precedenti

Alcuni commentatori si sono chiesti se la crisi delle Big Tech sia analoga alla bolla delle dot-com nel 2000. Altri, come Marco Marinucci, CEO di Mind The Bridge, hanno rievocato il “first-ever hiring freeze” nel 2007: “il mondo – scrive in questo articolo Alberto Onetti, Chairman di Mind the Bridge, docente e imprenditore – era in ginocchio a seguito della crisi finanziaria, ma il blocco delle assunzioni è durato solo qualche mese (senza essere accompagnato da sostanziali layoff)”.

Perché i licenziamenti nelle Big Tech?

Quindici anni dopo arriva un nuovo “freeze”. Perché? Sulle ragioni della raffica di licenziamenti nelle Big Tech, si è espresso, tra gli altri, lo stesso Onetti a fine 2022: “La loro crescita è inferiore alle attese – scrive su EconomyUp – e le loro mostruose valutazioni (Apple ha un price earning di circa 22, ossia per comprarla si pagano 22 volte gli utili, Google 16-17 volte, Meta 9) sono basate su aspettative di crescita esponenziale. Se questa rallenta la loro capitalizzazione crolla”.

Un caso particolare è quello di Meta-Facebook, ad oggi protagonista del taglio di posti di lavoro più massiccio. Il fondatore Mark Zuckerberg ha ammesso che il suo eccessivo ottimismo sulla crescita ha portato a un eccesso di personale in Meta e si è dichiarato responsabile dei passi falsi della società. Ma i “passi falsi” di Zuckerberg non riguardano solo la più recente scommessa sul Metaverso, fallita per molteplici motivi che non affronteremo in questa sede. Da alcuni anni diversi progetti di Zuckerberg non vanno a segno: si pensi, solo per fare un esempio, al fallimento di Libra, la valuta digitale per gli “unbanked”, poi ribattezzata Diem, dovuto principalmente ai sospetti di rischi per la privacy e alla mancanza di controllo pubblico. Si tratta insomma di licenziamenti che, potremmo dire, vengono da lontano.

Nel caso di Twitter, Elon Musk si è distinto per la brutalità e la stranezza nei modi – licenziamenti decisi in base alla valutazione dell’ultimo mese di lavoro del dipendente, comunicazioni inviate per email, persone cacciate per errore e poi reintegrate – ma la scelta avrebbe delle basi: secondo l’imprenditore, che l’ha acquisita per 44 miliardi, la società perderebbe oltre 4 milioni di dollari al giorno. Questi almeno i dati al 2022. C’è da sperare che con la “cura del taglio dei costi”, possa rialzarsi e riprendere a crescere.

Peraltro non promette bene neppure un social network concorrente come TikTok, da alcuni indicato come parzialmente responsabile della crisi degli altri player del settore: a causa del calo dei ricavi pubblicitari, per il 2022 la società avrebbe incassato almeno 2 miliardi di dollari in meno di fatturato.

Il problema della crisi delle Big Tech esiste. E va affrontato.

Crisi delle big tech: cosa fare?

Gli attori dell’ecosistema dell’innovazione sono ottimisti per natura e per professione. Ed è pur vero che alcune aziende, per esempio quelle focalizzate sull‘intelligenza artificiale e sul climate tech, la tecnologia per affrontare l’emergenza climatica, riescono ad esercitare ancora una forte attrazione sugli investitori. Ma, come riportava a fine 2022 il NYT, al TechCrunch Disrupt, grande conferenza di startup nel centro di San Francisco, i relatori hanno esortato i founder e i lavoratori nel settore della tecnologia ad accettare la realtà. “I prossimi anni  saranno molto più difficili e ci saranno meno risorse”, ha detto Sheel Mohnot, un investitore di Better Tomorrow Ventures. Naturalmente speriamo che si sbagli.

(Articolo inizialmente pubblicato il 15 novembre 2022 e aggiornato al 20/03/2023)

Articolo originariamente pubblicato il 15 Nov 2022

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Luciana Maci
Luciana Maci

Giornalista professionista dal 1999, scrivo di innovazione, economia digitale, digital transformation e di come sta cambiando il mondo con le nuove tecnologie. Sono dal 2013 in Digital360 Group, prima in CorCom, poi in EconomyUp. In passato ho partecipato al primo esperimento di giornalismo collaborativo online in Italia (Misna).

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