L'INTERVISTA

Jim Whitehurst, Ceo Red Hat: “L’open innovation è come fare la dieta”

I maggiori innovatori? Google e le banche. La norma europea sul copyright? Un “non problema”. Intervista esclusiva al il numero uno della più grande azienda al mondo del software open source, che spiega: “Fare innovazione è un po’ come dimagrire: facile a dirsi, difficile a farsi. Non basta comprare tecnologie…”

Pubblicato il 18 Set 2018

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Il progresso tecnologico in mano agli utenti. È così che si è innescata la più grande spinta all’innovazione degli ultimi dieci anni, ci spiega in un incontro a Roma Jim Whitehurst, presidente e CEO di Red Hat: con un ribaltamento del percorso verso la trasformazione, che non va più dal vendor IT all’utilizzatore ma funziona in senso contrario. Questo “approccio dal basso”, osserva il numero uno del colosso americano del software open source, significa che il motore dell’innovazione sono innanzitutto le grandi piattaforme digitali con un numero gigantesco di iscritti – Google, Facebook, Twitter, Linkedin. Rappresentando una casistica globale e complessa di utilizzo e quindi di problematiche, le piattaforme online mettono i software dei vendor in una sorta di stress test costante, provandone in ogni momento il funzionamento e la tenuta.

Jim Whitehurst, CEO di Red Hat

LA SPINTA DI GOOGLE&CO.

“Pensiamo ai progressi in ambito Big data”, nota Whitehurst: “Sono colossi come Google e Yahoo che hanno dato l’impulso all’utilizzo di un framework aperto come Hadoop per supportare applicazioni distribuite con elevato accesso di dati e risolvere i problemi dell’indicizzazione delle pagine web”. Oggi Hadoop è la base di tante applicazioni usate da grandi corporation e dalle banche. Anche per l’intelligenza artificiale la spinta arriva dalle grandi piattaforme Internet, aggiunge il CEO di Red Hat. Esempio quanto mai attuale: pochi giorni fa il numero uno di Facebook, Mark Zuckerberg, ha pubblicato un post in cui sottolinea il ruolo del machine learning per il rilevamento degli account falsi e delle fake news. I big del digitale danno l’input decisivo anche per la tecnologia dei container, un’evoluzione della virtualizzazione che offre più portabilità e configurabilità, indica Whitehurst: “Non ho numeri ma vi posso dire che diventerà molto grande. Volete sapere perché? Perché la sta usando Google”.

LA CINA INSEGUE L’AMERICA

 Attenzione: non sono solo le aziende digitali a spingere l’innovazione. È piuttosto la collaborazione tra queste e le aziende tradizionali a produrre la magia finale: un progresso tecnologico che risponde agli input di tutti, spiega il CEO di Red Hat. Altro punto: l’innovazione non la fanno solo i colossi degli Stati Uniti. “Non c’è bisogno di essere in Silicon Valley per innovare. La comunità open source è fatta di tanti sviluppatori in tutto il mondo”, osserva Whitehurst. L’innovazione però è facilitata se esiste una base numerosa di utenti IT: un ecosistema fertile di sviluppatori e startup, da un lato, e un pubblico ricettivo di imprese e persone che sfruttano la tecnologia, dall’altro. Non stupisce dunque che la Cina sia il primo paese che Whitehurst cita dopo gli Stati Uniti.

L’OPEN INNOVATION È “COME FARE LA DIETA”

Il settore che più di ogni altro ha colto le implicazioni della digital transformation e dell’utilizzo dei software open source (a parte l’industria tecnologica) è quello delle banche, dice Whitehurst: un’industria tradizionale che oggi sa che senza open innovation “perderà il suo vantaggio competitivo”. Ma come si fa innovazione? “È semplice a dirsi e difficile a farsi”, risponde Whitehurst. “Un po’ come dimagrire: tutti sappiamo che bisogna semplicemente mangiare di meno e muoversi di più, ma ogni anno ci facciamo attrarre da diete alla moda che promettono sistemi miracolosi”. Tradotto per le imprese che vogliono innovare: “Non basta comprare le tecnologie, sono la mentalità e il management che devono trasformarsi radicalmente”, dice Whitehurst. C’è anche un grande malinteso sull’open innovation, continua il CEO di Red Hat: “Lavorare insieme per il progresso tecnologico non significa dire sì alle idee di tutti. La collaborazione è un terreno in cui ci si scontra e ci si critica senza complimenti. Ci si rispetta, ma di deve avere la fermezza di dirsi l’un l’altro: questa idea non funziona, va scartata”.

RED HAT: LA COMMUNITY ITALIANA

Red Hat è l’unica software company al mondo che abbia raggiunto un fatturato annuo di 2 miliardi di dollari (con previsione di arrivare a 3 miliardi quest’anno) “vendendo software gratuito”, come dice Whitehurst. Red Hat infatti reingegnerizza e rende completamente affidabile e sicuro il software open source per ottenere un prodotto di livello enterprise. In Italia l’azienda nata nel North Carolina applica gli stessi paradigmi dell’innovazione aperta: tutti gli ingegneri italiani di Red Hat partecipano ai lavori dei principali User Group in ambito It a livello nazionale e internazionale.

IL COPYRIGHT? UN “NON PROBLEMA”

 Come vede un’azienda fondata sull’open source una normativa sul copyright? Whitehurst non commenta la direttiva approvata dal Parlamento europeo ma chiarisce: “Le norme sulla ‘copia’ non sono un problema, il vero ostacolo al progresso è rappresentato, nel campo del software, dai brevetti. Red Hat ha diversi brevetti, ma li dà tutti in uso alla community”.

Anche sulla regulation la posizione di Whitehurst è netta: i governi sono “20 anni indietro” rispetto ai cambiamenti della digitalizzazione. Questioni come “eventuali” monopoli nel mondo digitale, app mobili invasive, tassazione o automazione, che sottrae posti di lavoro, “chiedono una risposta organica e una gestione degli impatti sociali”. A proposito di automazione, è l’intelligenza artificiale la tecnologia più disruptive che Whitehurst vede nel prossimo futuro: Red Hat la sta incorporando in tutti i suoi prodotti ma, ancora una volta, le implicazioni sono profonde e abbracciano l’economia, la società, addirittura la politica. Implicazioni sottovalutate, ammonisce Whitehurst ripetendo: “I governi sono tremendamente in ritardo”.

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Patrizia Licata
Patrizia Licata

Giornalista professionista freelance. Laureata in Lettere, specializzata sui temi dell'hitech e della digital economy, dell'energia e dell'automotive. Scrivo dal 2007 anche per CorCom, parte del gruppo Digital360

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