“le quantità si contendono gli spazi, le qualità si completano a vicenda”
È intorno a questo assunto quasi poetico – e dopo aver visto il conto salatissimo presentato da un capitalismo insensibile al pianeta, alla responsabilità sociale e ad una distribuzione sostenibile della ricchezza – che stiamo imparando a utilizzare sempre di più i prodotti per quanto ci necessita, piuttosto che possederli interamente e lasciarli inutilizzati per buona parte della loro esistenza, magari disfacendocene senza averli quasi mai utilizzati o comunque ben prima della fine del loro ciclo di vita.
Che cos’è la servitization
Ci stiamo arrivando – oltre che per il conto esorbitante di cui prima – anche sostenuti da quel processo che va sotto il nome di servitization e che è progressivamente entrato nelle nostre vite economiche, insegnandoci a guardare al ciclo di vita della nostra esperienza di clienti rispetto al prodotto-servizio di cui necessitiamo, piuttosto che al prodotto-servizio in sé. Questo ha permesso di guardare ai mercati come domanda di valore fruibile ed ai prodotti-servizi come offerta di utilità lungo tutto il ciclo dell’esperienza del cliente, dal momento in cui si manifesta il bisogno, alla ricerca della soluzione, all’accesso e fruizione della soluzione, fino alla post-fruizione ovvero il riutilizzo dello stesso prodotto-servizio per l’utilità di un altro cliente.
Servitization: gli esempi
Un esempio chiarificatore davanti agli occhi di tutti di servitization ce lo fornisce il settore automobilistico con la sua trasformazione in atto dal possesso dell’automobile alla fruizione della mobilità.
Fino agli anni 1970 il fordismo ed il marketing fallico della penetrazione ci proponevano prodotti standardizzati (pur nella differenziazione tra auto del popolo – traduzione tra l’altro della parola Volkswagen – e versioni premium) che dovevamo acquistare per quello che erano.
Negli anni 1980 la celebrazione edonistica ha pompato i brands come elemento di supporto ai prodotti, veicoli di valori in cui identificarsi (una sorta di storytelling in erba).
Negli anni 1990 il progressivo abbandono di mitici super-uomini e super-oggetti – che iniziavano a mostrare la loro fallacia anche davanti ad una nascente sensibilità ecologica – ha portato i servizi ad elemento di differenziazione dei prodotti (pensiamo ai programmi di manutenzione programmata, il cambio gomme incluso nel periodo di garanzia, ecc.).
L’evoluzione digitale dei mercati, sia in termini di clienti sempre più informati che di apps che facilitano la programmazione della fruizione a tempo degli oggetti, ci hanno fatto attraversare l’inizio del nuovo millennio fino ad aprire paradigmi di pura fruizione dove il servizio ha sostituito il prodotto (carsharing)
L’evoluzione della cultura aziendale da service sensitive a service focused
Questa trasformazione culturale della società e dei mercati sta insegnando alle imprese che una delle leve della competitività su mercati sempre più incerti ed accelerati digitalmente è l’evoluzione della cultura aziendale da service sensitive a service focused, facendo dell’orientamento al servizio non solo una generica sensibilità ma un vero e proprio focus strategico che diventa uno stato mentale.
Solo così possiamo contribuire, come imprenditori, a fermare la folle corsa ad una crescita che non ha più mercato ed a progettare e immettere sul mercato prodotti e servizi che – ruotando intorno al ciclo di vita dell’esperienza del cliente – abbiano in sé le caratteristiche che ne permettano il massimo sfruttamento ed un riciclo sostenibile a fine vita.
Ai governi toccherà scrivere l’altra parte dell’equazione che renda sostenibile una contrazione dei livelli produttivi pro-capite e favorisca una equa distribuzione della ricchezza, accelerando paradigmi culturali, che una certa parte della nostra natura umana fatica ad abbracciare se non quando seriamente minacciata.