ETICA E TECNOLOGIA

Innovazione nei processi: perché il Design Thinking può rendere le esperienze digitali più “umane”

Il Design Thinking, approccio all’innovazione basato sull’abilità di integrare le capacità analitiche con le attitudini creative, può contribuire ad esperienze tecnologiche più personali, trasparenti e riconoscibili. Come? Con lo “human touch”. Che valorizza l’unicità delle persone e amplifica i loro lati positivi

Pubblicato il 07 Gen 2020

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Il Design Thinking è un processo di innovazione che prevede una forte attenzione per la dimensione umana delle persone in quanto deriva da una comprensione empatica di tutti gli insight dell’utente. In un contesto moderno, dove il digitale regna sovrano e le interazioni tra persone sono sempre più ridotte, risulta fondamentale il contributo del Design Thinking per la progettazione di esperienze digitali “umane”.

Cosa rende un’esperienza digitale “umana”

L’approccio umano-centrico, caratteristico del Design Thinking, offre un’interessante chiave di lettura per affrontare l’attuale dibattito sociale che vede al centro dell’evoluzione digitale il suo rapporto con le persone e l’impatto che può avere sulle loro vite. Le soluzioni digitali dovrebbero, infatti, valorizzare l’unicità delle persone, integrarsi perfettamente nella loro vita e amplificare gli aspetti positivi della natura umana.

Il Design Thinking affronta questa sfida creando valore attraverso la modulazione dell’esperienza digitale, che viene arricchita dalla sensibilità del “human touch”. Questo è reso possibile da una progettazione basata sulla comprensione dell’utente e delle peculiarità comportamentali che guidano le sue azioni.

Design Thinking: le esperienze

Ma per comprendere meglio cosa si intende per un’esperienza digitale “umana”, ecco i tre capisaldi che rendono un’esperienza tale:

1) Personale

La prima caratteristica fondamentale che rende una tecnologia digitale “umana” è l’esperienza personale che fornisce all’utente.

Ad oggi, le esperienze digitali offrono soluzioni “personalizzate”, modulate sulle esigenze di gruppi di individui accomunati dagli stessi connotati, ma solo alcune di esse possono essere considerate anche “personali”. I due termini, spesso utilizzati come sinonimi, sono caratterizzati da una sottile, ma fondamentale, differenza di significato, che può influenzare l’esperienza vissuta dall’utente.

Un’esperienza “personalizzata” implica un’azione esterna all’utente: qualcosa o qualcuno modifica l’esperienza in funzione delle caratteristiche della persona.

Un’esperienza “personale”, invece, indica un attributo più intimo, intrinsecamente legato all’individuo che sta vivendo l’esperienza; infatti, questo attributo può essere definito da nessun altro se non dalla persona stessa.

L’accezione “personale” dell’esperienza introduce, quindi, un requisito di unicità e protagonismo dell’utente, in quanto questi è coinvolto a livello emotivo e intellettuale.

Ne risulta che il valore creato è puramente individuale, poiché ogni persona percepisce l’esperienza digitale in modo diverso dagli altri.

2) Trasparente

In un’esperienza digitale più “umana”, gli utenti sono invitati a riappropriasi del valore creato dalla condivisione dei propri dati. Questo si differenzia dallo scenario attuale, in cui spesso non ci è chiaro come poche, grandi compagnie tecnologiche siano riuscite ad appropriarsi di alcuni nostri dati, pur senza averli forniti attivamente. Basti pensare a Google o Facebook, che ogni giorno raccolgono e archiviano un’incredibile quantità di informazioni sui propri utenti, senza che loro lo sappiano. Dalle ricerche quotidiane, alla geolocalizzazione, queste compagnie ci conoscono più di quanto possiamo comprendere.

La giustificazione, e attenuante, riportata da questi giganti tecnologici è che in cambio ci offrono esperienze sempre più predittive e attente ai nostri gusti.

Però la questione non risiede nel dato di per sé, ma nella mancanza di trasparenza nella raccolta. Per questo motivo, un’esperienza digitale più “umana” dovrebbe permettere alle persone di essere coinvolte in modo trasparente e soprattutto comprensibile nel processo di raccolta dati: ciascuno deve essere coinvolto in modo che possa decidere di condividere i propri dati, dopo aver capito chiaramente come questi vengono raccolti, quando vengono raccolti e soprattutto per produrre quale beneficio.

3) Riconoscibile

La terza e ultima caratteristica dell’umanizzazione dell’esperienza digitale riguarda la sfera dell’interazione tra uomo e macchina.

Le compagnie tecnologiche stanno sviluppando sistemi sempre più avanzati che sfruttano l’intelligenza artificiale per simulare le dinamiche umane. Ma parallelamente all’avanzare di queste intelligenze, vi è una crescente avversione (e preoccupazione) verso le tecnologie “umanoidi”.

Questo fenomeno di avversione verso una tecnologia eccessivamente umanoide si ricollega al concetto di Uncanny Valley” introdotto da Masahiro Mori nel 1970, che descrive un caratteristico “crollo” nella risposta emotiva nel momento in cui le persone incontrano un’entità quasi, ma non del tutto, umana. Il concetto spiega come le tecnologie dalle sembianze umane siano apprezzate, ma fino ad una soglia. Una volta superata tale soglia di somiglianza all’uomo, esse evocano improvvisamente e drasticamente un effetto di disagio negli utenti, poiché presentano sfumature umane, fin troppo artificiali.

Per questo motivo, un’esperienza digitale deve sì richiamare il calore e la familiarità delle interazioni umane, ma senza mascherare la tecnologia per un umano.

Il Design Thinking può dunque contribuire alla progettazione di esperienze tecnologiche più personali, trasparenti e riconoscibili, così che esse possano apportare un reale valore per il singolo individuo e fungere da “enabler” della persona.

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Cristina Tu Anh Pham
Cristina Tu Anh Pham

Dopo essersi laureata in Design e Management Engineering presso il Politecnico di Milano, ha lavorato come Service Designer in una società di consulenza. Attualmente è una studentessa PhD presso la School of Management del Politecnico di Milano e ricerca l’ambito di Design e Innovation Management.

Stefano Magistretti
Stefano Magistretti

Direttore Osservatorio Design Thinking for Business del Politecnico di Milano. È anche Senior Researcher presso LEADIN’Lab (LEAdership, Design e INnovazione)

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