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Il problema dell’Italia (del venture capital e dell’innovazione) in un’immagine e molti commenti



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In una classifica sulle prime 50 aziende europee per capitalizzazione non ce n’è una italiana. Anche se imprecisa, conferma una realtà: manca una politica economica convinta sostegno di nuove imprese con forte potenziale di crescita. A poco servono le posizioni “patriottiche”

Pubblicato il 27 ago 2024



Aziende Europa

In agosto su LinkedIn ho ripubblicato un’infografica di CompaniesMarketCap che raffigura le prime 50 aziende europee per capitalizzazione sotto forma di una spirale con delle bolle di dimensione decrescente che dalle più grandi (NovoNordisk, LVMH, ASML, Nestlè e L’Oreal) arriva alle più piccole (Stellantis, AXA, Equinor, BMW, Zurich).

Il fatto che mi aveva colpito in questa immagine è che non ci sono bandiere italiane.

Di qui il titolo: Il problema dell’Italia spiegato in una immagine e il (lapidario) commento:

  • Grandi imprese assenti.
  • Politica industriale inesistente da decenni.
  • Una miriade di PMI che – a parte qualche gioiello – arrancano.
  • Una struttura industriale che si indebolisce e diventa vecchia, anno dopo anno.
  • Una totale disattenzione ad innovazione, startup e venture capital.
  • Poco da fare se non si cambia passo.
  • E, visto l’approccio degli ultimi governi (presente incluso), non attendiamoci nulla di buono.

Il problema dell’Italia: qualche dato

Non so chi abbia costruito l’immagine, che è tanto efficace quanto poco accurata. Di certo mancano alcune aziende italiane: se fosse costruita in base ai valori correnti dovrebbero essercene cinque (Ferrari in 27° posizione, Enel 32°, IntesaSanpaolo 34°, Unicredit 41° e Eni 49°, tra le cento si aggiunge solo Generali 67°). Vero pure che ci sono realtà con base industriale in Italia ma sede legale altrove (Stellantis ed Exor).

Ma, anche aggiungendole, non credo che il messaggio cambi nella sostanza (anche perché nessuna italiana è tra le prime 25). Come bene ha commentato Marco Lotito ne esce l’immagine di un paese “in bilico tra efficienza microeconomica ed inefficienza macroeconomica, magari fosse ancora vera la prima”.

Messaggio peraltro in linea con quello che avevo comunicato giusto due mesi fa su questa stessa colonna, commentando i dati presentati da Ilya Strebulaev della Stanford University Graduate School of Business sull’età delle principali aziende di ogni Paese. In sintesi, negli Stati Uniti 7 delle top 10 sono state fondate negli ultimi 50 anni e 6 sono (coincidenza) finanziate dal Venture Capital, versus zero in Italia (la più giovane è Enel – nata nel 1962 – e l’anno medio di costituzione è il 1899 versus il 1947 negli USA).

L’orgoglio nazionale e la consapevolezza su cosa fare

Al di là delle centinaia di commenti in linea, mi hanno colpito alcuni da cui emergono prese di posizioni acritiche, da tifoso (“Chi ha fatto questo grafico era volutamente anti italiano”), che quasi negano la realtà (“Posso far notare che Intesa San Paolo è nata nel 2007, ha meno di 20 anni di storia”).

Il punto non è difendere l’orgoglio nazionale, tenere al nostro Paese. In cui restano molte realtà di eccellenza come i dati sull’export italiano (che nel primo trimestre di quest’anno ha raggiunto quello del Giappone e resta al quarto posto mondiale), richiamati con legittimo orgoglio da Mauro Battocchi (Direttore Generale per la promozione del Sistema Paese, già Console a San Francisco), confermano.

Il punto è cercare di valutare oggettivamente la situazione per auspicabilmente cercare di migliorarla. Ossia, tra le altre cose, comprendere come e quanto il Venture Capital sia il motore del rinnovamento di ogni tessuto industriale e fare qualcosa di sostanziale e significativo al riguardo.

Cosa che gli ultimi governi (con forse l’unica eccezione di Di Maio e Passera) non hanno fatto. Cosa che l’attuale governo (almeno dalla lettura del DDL Concorrenza) non sembra minimamente interessato ad affrontare.

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