Chi sono i game changers? Di cosa si occupano in azienda? E perché sono ritenuti degli innovatori? Queste sono alcune delle domande a cui vorrei provare a rispondere oggi, e così facendo provare anche a far conoscere questa figura di cui forse qualcuno ha sentito parlare ma che in Italia ancora fatica ad emergere.
Tempo fa, il Sole 24 Ore riportava che in Italia, dove si sta riuscendo a mettersi al passo con il resto del mondo su alcune tematiche di innovazione, mancano circa 3000 innovation managers nelle aziende. Bene, benissimo che si sia iniziato a parlare di queste figure, ma allora, perché non si parla anche di game changers?
In un articolo di Forbes ormai datato (risale al 2012), si parla del game changer come lo “ah-ha moment’’, l’eureka, ovvero quel momento in cui riusciamo a vedere qualcosa che gli altri non vedono, e che potrebbe avere un impatto sensibile sul nostro business e sul nostro modo di fare innovazione. In questo articolo mi piacerebbe provare a tradurre i sei criteri indicati da Myatt per creare un momento game changer, e delineare invece i sei punti essenziali per profilare una figura aziendale che sia appunto capace di vedere quello che gli altri non vedono. Quindi nel seguito mi riferirò al game changer come una persona, all’interno di un’azienda. Iniziamo a creare questo blue print.
Un game changer è, di solito, alla costante ricerca di qualcosa di nuovo, non si accontenta delle pratiche comuni, o del quotidiano, ma cerca la sfida, l’unicità dell’opportunità, ed è capace di vedere molto in prospettiva. Pertanto non si tratta semplicemente di un sognatore, ma di un “realizzatore”, di una persona pragmatica che si mette in gioco, e soprattutto che crede talmente nella propria idea, che prova in tutti i modi a svilupparla con tutti i mezzi possibili, fino a quando riesce a vederla realizzata. In questa continua ricerca, il game changer sente il bisogno quasi spasmodico di andare contro corrente. L’essere originale implica sfidare le convenzioni, le routines e i modi di fare canonici all’interno della propria azienda. Ma significa anche non accontentarsi di riutilizzare semplicemente idee di altri proponendole come nuove, magari rivisitate sotto uno o più aspetti, ma bensì trovare quello che si dice il breakthorugh, ovvero quel qualcosa che sia capace di rompere gli schemi e imporsi come totalmente nuovo.
Quindi, in poche parole, stiamo parlando di una figura che riesce a cambiare le regole del gioco, ovvero che riesce a pensare fuori dagli schemi, a sfidare i limiti innovativi delle aziende, e arrivare all’ah-ha moment creando nuove opportunità.
Ma proviamo a capire cosa è necessario per creare tale profilo in azienda, seguendo la strada indicata da Myatt, che ci parla di SMARTS (Simple – Meaningful – Actionable – Relational – Transformational – Scalable).
SEMPLICITÀ
Myatt ci dice di essere semplici. Ebbene, riflettendo questa caratteristica su un game changer, sarà necessario che questa figura sia in grado di identificare opportunità semplici, facili da sviluppare fino ad avere un prodotto funzionante e facile da testare con l’utente finale. Il focalizzarsi sulle cose semplici certamente aiuta ad accelerare il processo innovativo e soprattutto a risparmiare risorse, senza lasciarsi travolgere dalla complessità.
SIGNIFICATIVITÀ
Ciò che si ricerca, e che si vuol attuare, deve essere anche significativo. Ma significativo vuole dire che abbia un impatto, che riesca ad essere declinato nel linguaggio del business. Deve significare qualcosa per il nostro utente finale, per il nostro cliente, per il nostro nuovo prodotto, e perché no, per i nostri profitti. Il ruolo del game changer, in questo caso, deve essere quello di definire se una opportunità ha un valore ed un impatto per l’azienda qualora la si voglia cogliere.
ATTUABILITÀ
Il game changer deve trovare opportunità che siano attuabili e fattibili. Deve essere in grado di identificare il percorso che l’opportunità dovrebbe fare per trasformarsi in un nuovo prodotto, e soprattutto per la sua commercializzazione. Come ben sappiamo, innovare non significa solo avere delle buone idee, ma significa riuscire a svilupparle e a portarle sul mercato. Quindi il game changer deve far emergere questo aspetto fondamentale durante le sue ricerche e le sue sfide.
RELAZIONALITÀ
Abbiamo spesso sentito dire, o letto, che le aziende sono fatte di persone, e che l’innovazione avviene soprattutto grazie ad esse. Un game changer deve quindi essere in grado di fare rete, essere un cosiddetto networker, aggirare i silos interni all’azienda, creare relazioni, creare collaborazioni, per far sì che l’opportunità possa svilupparsi nel miglior modo possibile, e soprattutto che trovi terreno fertile per essere anche attuabile.
TRASFORMABILITÀ
Va da sé che un game changer porta e causa cambiamento, quindi questa deve essere una caratteristica innata in questa figura, deve essere il classico “must have”. Il game changer è un trascinatore, le persone con cui interagisce lo seguono e lo reputano un leader del cambiamento e della trasformazione, riconoscendone il ruolo di modello di innovazione.
SCALABILITÀ
Qualsiasi cosa comporti un cambiamento, una innovazione, alla fine deve essere scalabile e sostenibile. Quindi un game changer deve essere in grado di individuare, oltre che la attuabilità dell’opportunità, anche la possibilità di scalarla, ovvero di renderla parte integrante del business, di fare volumi, e soprattutto di renderla ripetibile. Senza la scalabilità viene meno tutto il processo di trasformazione.
Questi sei criteri, con i quali ho provato a delineare il profilo ideale del game changer, sono le condizioni necessarie per innovare e ricercare continuamente nuove opportunità. Tali criteri sono assolutamente simbiotici, non possiamo disgiungerli, e tantomeno pensare che uno possa essere attuato senza il precedente o il successivo. Inoltre, come si potrà intuire, i game changers sono mosche bianche, ovvero è molto difficile trovarne in quantità, perché tali figure operano in ambienti con un certo “grado di libertà”, ovvero dove abbiano possibilità di seguire un processo di innovazione non convenzionale. La mia speranza è che le aziende più visionarie possano utilizzare questi criteri come linee guida, magari per iniziare un percorso formativo di una figura interna che possa diventare il futuro game changer.
A conclusione di questo breve articolo, mi piacerebbe anche lanciare questa “sfida” a chi si occupa e scrive di innovazione, e provare a lavorare insieme per capire quale sia lo stato dell’arte di queste figure all’interno delle aziende italiane, perché se è vero che mancano tremila innovation managers, certamente mancano altrettanti game changers. E ora più che mai c’è bisogno di formare queste figure, proprio a fronte dei nuovi scenari che la trasformazione digitale, l’industria 4.0, l’open innovation, l’intelligenza artificiale, la blockchain e simili stanno creando. Cerchiamo di non perdere il treno.