Il più grande influencer della nostra epoca ha vissuto ben prima che personaggi come Chiara Ferragni creassero questa nuova professione e si chiamava Milton Friedman. Era un economista, premio Nobel, e capofila dei Chicago Boys, gli economisti della Scuola di Chicago che propugnarono i princìpi del cosiddetto neoliberismo. Friedman, le cui idee influenzarono le scelte dei governi di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, vale a dire i leader di due fra i Paesi più potenti del mondo negli anni Ottanta, economicamente e culturalmente, affermò che: “C’è una e una sola responsabilità sociale dell’impresa: utilizzare le sue risorse e impegnarsi in attività volte ad aumentare i suoi profitti, purché rimanga entro le regole del gioco, vale a dire, si impegni in una concorrenza aperta e libera senza inganni o frode”. Milton Friedman ha introdotto questo principio nel suo saggio “A Friedman Doctrine: The Social Responsibility of Business is to Increase Its Profits”, pubblicato dal The New York Times nel 1970
La chiosa di questa affermazione è il famoso slogan “The Business of business is business”, che suggella l’idea che le imprese debbano preoccuparsi di fare profitto, mentre è sottinteso che del bene comune si devono occupare i governi, le istituzioni, la società civile e del bene proprio e delle proprie famiglie, le persone.
“The Business of Business is Business”: la teoria di Friedman (e non solo)
Questa visione del ruolo del business non nasce certamente con Friedman. Ne troviamo le radici già nel Colonialismo prima e nella Rivoluzione Industriale poi. Ma certamente mai prima di Friedman questo è stato il paradigma culturalmente dominante nel mondo dell’impresa. Non di tutte le imprese, ovviamente, e non sempre. Ma questo è stato per decenni il paradigma “legittimante”, al punto da diventare un dogma secondo il quale imprese, imprenditori e manager non potevano essere “buoni”, a meno che questo non si manifestasse in più o meno episodiche operazioni filantropiche, da tenere comunque ben lontane dalle attività di business dell’impresa. Il risultato dell’affermazione di questo paradigma è stato duplice. Da un lato il forte aumento del GDP globale, e con esso dei consumi e del benessere di una parte della popolazione mondiale, che ha goduto di un più ampio accesso a prodotti e servizi che hanno permesso di migliorare la propria qualità di vita. Dall’altro lo sfruttamento sistematico di altre popolazioni e delle risorse naturali, il che ci porta a vivere in un’epoca di diseguaglianze crescenti e di degrado degli ecosistemi, a cui si aggiunge il dramma della crisi climatica e dei suoi effetti presenti e futuri.
Come sono aumentati diseguaglianze e degrado
Sui livelli di diseguaglianza, che si è peraltro accentuata negli anni della pandemia, sono illuminanti i rapporti di OXFAM, la confederazione di Organizzazioni Non Governative che ha nella sua missione la lotta alle diseguaglianze. QUI il suo rapporto più recente.
Per quanto riguarda le crisi ecologiche, non c’è nulla di più chiaro di quanto affermato dagli studi di Johan Rockström e dal suo framework dei “Planetary Boundaries”, con il quale misura l’evoluzione dei principali fattori ecologici (diciamo quelli che permettono di fare un bel check up al nostro pianeta), mettendo in evidenza il degrado di buona parte di essi, degrado che in alcuni casi è oramai irreversibile. Ecco come Johan Rockstrom, uno degli scienziati internazionali più riconosciuti, ci motiva ad occuparci immediatamente della situazione pianeta in un suo importante TED talk:
La crisi del paradigma di Friedman: più GDP non equivale a più felicità
Ce n’è abbastanza per dire che non possiamo contare sulla possibilità che sia il paradigma di Friedman a garantire progresso e prosperità diffusi, ambizioni a cui eticamente l’umanità non può rinunciare. Un periodo di cinquant’anni dovrebbe essere stato sufficiente ad averlo dimostrato, anche se è chiaro che la resistenza al suo superamento resti importante. Il modello è però incrinato così come la convinzione che il GDP (Gross domestic product, prodotto interno lordo) sia la metrica migliore per misurare il benessere di un paese. Ecco un altro dogma da superare come dovrebbe peraltro essere scontato vista la natura esclusivamente economica di questo indicatore: che non ci sia una relazione diretta fra il GDP (o la crescita misurata in quei termini) e il benessere delle persone, o addirittura la loro felicità, è oramai dimostrato. E se ci fossero dubbi sul fatto che il GDP è un indicatore sbagliato, propongo un elenco che proviene da un altro TED talk, di un imprenditore e autore che si chiama Chip Conley.
Ho tradotto in italiano il suo elenco e l’ho parzialmente modificato per presentarlo in un programma della The Good Business Academy. Questo elenco indica cosa fa crescere il GDP e cosa a cui invece il GDP non dà valore. Mentre lo leggete, chiedetevi quale delle due liste contiene fenomeni che hanno un impatto positivo sulle persone …
Insomma, è arrivato il tempo per andare oltre la focalizzazione sul GDP per i governi e sul profitto per le imprese. E per farlo è necessario sostituire questi dogmi con un nuovo paradigma, quello del business e dell’impresa for good, cioè quella per la quale la creazione di valore umano, sociale ed ambientale non è più strumentale al business, né un suo accessorio od effetto collaterale, ma parte dello scopo e quindi della ragione d’essere dell’impresa.