Fincantieri costruirà due nuove navi da crociera per l’americana Carnival, che è la prima compagnia crocieristica del mondo. Per capire che cosa in grado di fare la manifattura italiana nella cantieristica: l’ordine supera il miliardo di euro, stiamo parlando di imbarcazioni da quasi 100mila tonnellate di stazza lorda capaci di ospitare oltre 2500 passeggeri. Un lavoro che richiederà quasi cinque anni. Se Fincantieri è il numero uno al mondo nella costruzione di navi da crociera (oltre ad un leader per gli yacht e le imbarcazioni militari), probabilmente lo deve anche alla sua capacità di guardare avanti: la piattaforma cruise che piace agli americani come ai cinesi (che hanno voluto il Made in Italy per le loro prime navi da crociera) è il frutto di un investimento in innovazione per oltre 200milioni negli ultimi tre anni. Solo nel 2016 sono stati investiti circa 90 milioni in ricerca e sviluppo da un gruppo che fattura oltre 4miliardi, ha ordini per 25, 19mila dipendenti e oltre 2.600 fornitori solo in Italia.
Com’è organizzata la macchina di Fincantieri per produrre innovazione? Quanto è aperta? Quali obiettivi ha? EconomyUp lo ha chiesto a Massimo Debenedetti, Corporate Vice-President for Research & Innovation.
Quali sono le strategie che guidano l’innovazione in Fincantieri?
Tre sono gli assi fondamentali. C’è lo sviluppo di contenuti innovativi nelle commesse, specie se sono prototipi. Ogni contratto rappresenta un fabbisogno di innovazione, che viene sviluppato dalle direzioni tecniche dei nostri business. Poi c’è l’innovation off the shelf: anticipiamo le esigenze dei clienti per essere pronti a rispondere a bisgno non ancora espressi. Poi c’è l’innovazione di lungo periodo che prevede l’investigazione di tecnologie che possono abilitare l’ingresso in nuovi business.
Qual è la governance dell’innovazione in Fincantieri?
La Ricerca&Innovazione sta nell’area Operations (che governa i processi trasversali alle diverse unità di business), insieme con l’IT. C’è un team di persone che sta a Trieste, nella direzione generale, che è responsabile di tutte le attività trasversali. Poi all’interno di ogni area di business esiste un ente di ricerca e innovazione, che riporta gerarchicamente a me e funzionalmente al responsabile del business, a cui compete l’execution. Abbiamo quindi un modello molto vicino al business. Parte integrante della nostra area è il centro di ricerca Cetena, il Centro di studi per le tecniche navali di Genova, dove lavorano circa 80 persone e non solo per Fincantieri.
Fate quindi tutto in casa?
Assolutamente no. Il nostro business, esattamente come quello automobilistico, ferroviario o aeronautico è sostanzialmente caratterizzato da una presenza significativa di fornitori. Più del 50% dei nostri prodotti nasce dall’integrazione di pezzi che arrivano dall’esterno. In questo contesto non è possibile prescindere dai fornitori se si vuole fare innovazione in maniera strutturata.
Come coinvolgete in fornitori nei processi di innovazione?
Noi dobbiamo far convivere due esigenze. Da una parte ingaggiare i fornitori in maniera sistematica su contenuti che non sono collegati ancora a commesse ma sono in anticipo. Dall’altra creare un vantaggio competitivo per Fincantieri.
Come avete risolto?
Ai fornitori che collaborano con noi chiediamo la proprietà intellettuale dei progetti congiunti o almeno l’esclusiva, per un periodo di tempo che si negozia.
Funziona?
Abbiamo cominciato nel 2013 e finora abbiamo coinvolto nelle nostre attività di innovazione circa un centinaio di fornitori e abbiamo sviluppato una ventina di partnership che significano altrettanti progetti di innovazione. E quando non troviamo i partner giusti nella nostra supply chain, ci rivolgiamo altrove.
Quali sono i vantaggi per un fornitore in cambio della proprietà intellettuale o dell’esclusiva dell’innovazione che sviluppate insieme?
Il primo vantaggio è strategico. Noi condividiamo con lui quello che gli chiederemo fra 5 o 10 anni. Ma c’è un altro vantaggio, diciamo, operativo: riuscire a implementare a bordo di una nave una nuova tecnologia superando in anticipo le difficoltà di integrazione.
Quindi coinvestite in innovazione con i fornitori?
Dipende dai casi. A volte il nostro investimento sono le ore di ingegneria necessarie per l’integrazione, quindi il tempo delle persone. In altri casi c’è un investimento in denaro.
Qual è il bilancio di questa attività di co-innovazione con i fornitori?
Sulla carta il processo è relativamente semplice, tradurlo in operatività quotidiana è più difficile. Il risultato più importante è aver definito un modello, un processo ripetibile. Il primo passo è il progetto di una nave, poi attraverso una metrica quali-quantitativa si individuano quali sono i sistemi che impattano sulla competitività del prodotto. A questo punto sui primi 10 definiamo la nostra strategia di innovazione e per ciascuno si mette al lavoro un team con obiettivi misurabili. Questo per evitare affermazioni di principio. Così riusciamo a fissare i valori a 5 e 10 anni, nostri e della concorrenza.
Quali sono le vostre relazioni con le startup?
Il lavoro con i fornitori parte dalle funzioni esistenti per migliorarle: si tratta di innovazione incrementale. A questa attività si aggiunge il technnoloy scouting, che non è focalizzato sulla tecnologia ma sui bisogni ancora inespressi dei nostri clienti. E questa può diventare innovazione distruptive. Facendo technology scouting siamo entrati in contatto con diverse startup, con le quali stiamo dialogando per sviluppare progetti insieme.
Quali startup?
È ancora troppo presto per parlarne. Il pilot è del 2014, il sistema di technology scouting è andato a regime nel 2015. Abbiamo esaminato oltre 300 tecnologie, ne abbiamo trovate circa 70 di potenziale interesse e 30 sono state valutate. Ancora nessuna è stata messa in produzione. Un progetto inizia se c’è una possibilità di portarla in produzione: attualmente abbiamo circa una decina di progetti in corso, di cui qualcuno con startup.
Quali differenze riscontrate rispetto ai fornitori abituali?
Dipende dallo stato di maturità della startup. Di solito notiamo che c’è molta focalizzazione sugli aspetti tecnologici mentre si perdono di vista quelli di business e commerciali. Spesso le startup hanno un’idea molto chiara della tecnologia che usano ma non altrettanto del bisogno che quella tecnologia può soddisfare. Abbastanza spesso ci troviamo di fronte a soluzioni alla ricerca di un problema Di fatto ci troviamo noi a fare il business plan…
Qual è invece il rapporto con l’Università?
Fincantieri ha rapporti storici con l’Università, soprattutto Genova e Trieste, e ci sono collaborazione con tutti gli atenei. Ma ci siamo resi conti che si trattava di una relazione tattica più che strategica: si cercava la soluzione di problemi puntuali. Non si sfruttava, quindi, il potenziale dirompente che ci può essere nella ricerca universitaria. Da qui è nata l’esperienza dell’Innovation Challenge con la Scuola Politecnica di Genova, una call for ideas per l’università. Sono arrivate circa 40 progetti, abbiamo selezionato i 6 più promettenti e due li stiamo sviluppando: potrebbero diventare pezzi di nostri prodotti. Abbiamo fatto la stessa esperienza anche a Palermo e Napoli. E vorremmo estenderla ad altri atenei. Ma a una condizione…
Quale?
L’ università ci deve assicurare un’unica interfaccia. Il fattore che rende la relazione complicata è che il mondo universitario è molto frammentato, un insieme di monadi ed è per questa ragione che la collaborazione di solito si basa sui rapporti personali. Se si vuole un approccio più strategico, l’università deve dotarsi di un pivot, che raccoglie il bisogno dell’impresa (che da parte sua deve essere capace di individuarlo ed esprimerlo) e lo distribuisce al suo interno. Noi abbiamo bisogno di interdisciplinarietà e il fattore vincente delle nostre esperienze con Genova, Napoli e Palermo è stata la disponibilità di una figura apicale che ha fatto da “perno” delle straordinarie competenze e della creatività che ogni ateneo ha al suo interne.
Come vede lo stato dell’innovazione in Italia?
Siamo di fronte a un giano bifronte: da un lato un sistema universitario di qualità se valutato sulle pubblicazioni scientifiche; dall’altro un sistema produttivo che non riesce a crescere. Manca ancora qualcosa nella chimica che consente di trasformare la conoscenza in valore. L’innovazione in ultima analisi che cos’è: la capacità di un’azienda di utilizzare la leva tecnologica per posizionarsi nella catena del valore e rivedere eventualmente il modello di business. A noi manca qualcosa per trasformare la conoscenza in ricavi, in valore.