“Il cambiamento spetta ai giovani, ma è responsabilità degli adulti fornire il giusto contesto affinché questo accada”. Parliamo di Generazione Z e quella di Federico Capeci, CEO della società di ricerche Kantar, è una chiamata per genitori, manager, imprenditori, diciamo per tutta la classe dirigente nella sua dimensione pubblica o privata che sia. La lancerà il 5 aprile in occasione del primo evento in presenza della Fondazione Pensiero Solido, a Milano, dal titolo “Permacrisi? No, permacambiamento!”, che affronterà quattro dimensioni del cambiamento: la Generazione Z la Silver Economy, il welfare digitale e l’Africa come terra di nuova imprenditorialità (qui la registrazione per seguire i talk in presenza oppure online)
La Generazione Z, quella dei nativi digitali (circa 7 milioni di italiani entro il 2050), è certamente un paradigma di cambiamento nella società, nel mercato, nelle aziende. Ma, aggiunge Capeci che sul tema ha pubblicato con Franco Angeli il libro “Generazioni”, va supportata, dandole un senso del futuro, preoccupandosi di quell’interesse delle future generazioni che da febbraio 2023 è anche entrato ufficialmente nella Costituzione italiana con la modifica degli articoli 9 e 41 per la tutela dell’ambiente.
La questione nelle organizzazioni riguarda tutti, dall’HR al marketing. Le aziende cercano di attrarre il talento dei giovani ma anche di conquistare la loro attenzione di clienti. Si sforzano per capirli, accoglierli, conquistarli. I giovani nati a cavalli fra Novecento e nuovo secolo sono una risorsa ma anche un target, sfuggente ed esigente che richiede un approccio diverso.
Capeci, come se la stanno cavando le aziende di fronte a questo cambiamento?
“Le aziende stanno dedicando una grande attenzione ai Centennial, anche se purtroppo i direttori marketing sono nella migliore delle ipotesi Generazione X e spesso Boomers e c’è quindi un inevitabile clash generazionale. Sono poche quelle davvero coraggiose che riescono a superarlo. Tutte comunque sentono la spinta molto forte alla comunicazione digitale e alle tematiche valoriali”.
Che i giovani portino cambiamento è sempre stato vero. Che cosa c’è di diverso con questa GenerazioneZ?
Diverse cose. La prima è che questa la prima generazione davvero digitale, un dato che determina altre spinte. La pandemia è stata un acceleratore per qualcosa che questa generazione avrebbe portato nella società e nelle aziende, cioè la digitalizzazione delle relazioni di lavoro.
Che cosa significa questo per le aziende?
Questi giovani ci stanno chiedendo di rivedere le logiche di presenza a cui eravamo abituati. Mia figlia, quando è in casa, ha il WhatsApp sempre aperto, è connessa anche quando fa altro. Loro sono in grado di gestire contemporaneamente diverse attività e relazioni. Sono presenti, anche quando non parlano.
Ma non è detto che il loro sia il modello corretto e vincente…
No, ma la pandemia in qualche modo ha generato in questa generazione la convinzione di essere nel giusto. Le precedenti generazioni hanno dovuto lottare per affermare le loro convinzioni e i loro stili di vita. Dopo che la pandemia ci ha fatto provare che il digitale è giusto, comodo, efficace, la Generazione Z sa di avere ragione e quindi vuole imporre le sue condizioni, con un grande limite e un rischio…
Quali?
Per la mia generazione il digitale è diventato un’opportunità per vivere meglio il reale, per avere un migliore equilibrio vita-lavoro. Ci ha fatto capire che ci sono cose che si possono fare bene anche da casa o da un qualsiasi luogo diverso dall’ufficio. Mentre ho il dubbio che la Generazione Z non abbia avuto la possibilità e non abbia la capacità di cogliere le differenze. A me la pandemia è servita, potrei direi in modo estremo, a te giovane ha finito per chiuderti in casa. E questo non va bene, ovviamente.
La Generazione Z, quindi, è un paradigma di cambiamento ma non va accolto sempre e comunque? Qual è la postura corretta?
Noi abbiamo molto da imparare da loro, ma non dobbiamo sottovalutare il ruolo degli adulti. A me vengono su i nervi quando sento parlare di reverse mentorship. Che cosa può insegnare un ventenne a un CEO per la gestione di un’azienda? Semmai deve lanciargli delle sfide, molto meglio parlare di mutual mentorship.
Quindi, ciascuno resti al suo posto per il bene di tutti?
Noi adulti non possiamo e non dobbiamo abdicare al nostro ruolo. Abbiamo la responsabilità di supportare e proteggere i giovani, rifuggendo dalle retoriche sui giovani. Oggi vedo la tendenza a una delega totale, che non ci porta lontano. Così faranno solo manifestazioni sul climate change, ma senza risolvere nulla.
Sta dicendo che la Generazione Z non conosce l’impegno sociale?
Io a mia figlia direi: che cosa stai facendo per cambiare davvero le cose? Che cosa sei disposta a rischiare? Questa Generazione Z rischia di concludere poco o nulla, come la precedente dei Millenial. Infatti, non ci sono movimenti rilevanti che portano a risultati significativi, perché non hanno l’obiettivo che si sono date altre generazioni in passato: volevano cambiare il mondo.
E questo perché succede?
Perché manca una cosa fondamentale: il senso del futuro. I nativi digitali sono anche nativi in situazioni di crisi. Hanno sviluppato quindi una grande resilienza, ma pensare a un futuro che sarà peggiore del passato e del presente rappresenta un grande problema. Questa è la nostra sfida: rimettere al centro il futuro della Generazione Z e di quella che è arrivata dopo.
Come si affronta questa sfida? Come si supportano i giovani senza appiattirsi sulle loro posizioni? Ci anticipa qualche proposta che farà il 5 aprile nel talk dedicato alla Generazione Z nel corso dell’evento Permacrisi? No, permacambiamento?
In una parola direi che dobbiamo lavorare per attivare una sinergia generazionale, che preveda una condivisione di valori e, soprattutto, di prospettive. La Generazione Z è quella con la più forte spinta etica dopo il Sessantotto, ma va orientata. Dobbiamo riuscire a sorprenderli questi giovani che vivono in un eterno presente, offrendo uno scopo nel futuro, proponendo la qualità delle relazioni rispetto alle connessioni e delle riflessioni rispetto alle azioni, l’importanza dei movimenti sociali rispetto alla socialità dei digital network. È una responsabilità e un’opportunità di noi adulti, sia in casa sia in azienda.