Sono passati circa 25 anni da quando un professore di Harvard, Clayton Christensen, scomparso a gennaio 2020, coniò l’espressione “disruptive innovation”, che coglieva in pieno il senso dell’innovazione in grado di travolgere e spazzare via interi business. Da allora la sua teoria, accolta, compresa e messa in pratica da numerose organizzazioni, ha contribuito alla creazione di centinaia di nuove aziende che hanno fatturato miliardi di dollari. Vediamo meglio qual è il significato di disruptive innovation e perché il contributo di Christensen è stato essenziale per il mondo delle imprese.
Che cos’è la disruptive innovation
“La disruptive innovation descrive un processo attraverso il quale un prodotto o un servizio alimentato da un abilitatore tecnologico si radica inizialmente in semplici applicazioni nella fascia bassa di un mercato, dato che, in genere, è meno costoso e più accessibile, per poi muoversi inesorabilmente verso il mercato di fascia alta, sostituendo infine i concorrenti consolidati”. Così Clayton Christensen spiega in estrema sintesi la sua teoria a Karen Dillon, suo collaboratore di lunga data, nell’ultima intervista rilasciata prima della sua morte alla MIT Sloan Management Review.
L’espressione era comparsa per la prima volta in letteratura in un articolo scritto da Clayton Christensen con Joseph Bower, “Disruptive technologies: catching the wave”, pubblicato nel 1995 nell’Harvard Business Review. Nato a Salt Lake City, nello Utah, docente di Business Administration presso la Harvard Business School “Kim B. Clark”, membro del Boston Consulting Group e fondatore della società di consulenza Innosight, nel 1995 Christensen spiegava per primo insieme al collega il significato della “innovazione dirompente” (così il termine è stato spesso tradotto in italiano). In particolare sottolineava quanto potesse essere devastante per le imprese incumbent di un settore non accorgersi dei rischi di lasciar crescere a livelli di scala elevati – nella fascia bassa del mercato – imprese portatrici di nuove tecnologie caratterizzate da costi bassi ma da prestazioni altrettanto basse, per poi soccombere a quelle stesse nuove imprese con il migliorare delle prestazioni .
In seguito il concetto è stato approfondito nel libro “Il dilemma dell’innovatore: la soluzione. Creare e mantenere nel tempo business innovativi e di successo” (1997), edito in Italia da Franco Angeli, che ha ricevuto il premio Global Business Book per il miglior libro dell’anno. Nel saggio vengono elencati sia i successi sia i fallimenti delle principali aziende. L’autore ne ricava una serie di regole per riuscire a sfruttare le opportunità offerte dalla disruptive innovation. Mentre spesso le grandi multinazionali falliscono quando si trovano di fronte a cambiamenti di mercato e di tecnologia – rileva Christensen – le piccole e medie imprese che sanno ascoltare i consumatori, che anticipano con le loro antenne competitive nuovi bisogni emergenti e che puntano aggressivamente su disruptive technologies, hanno grandi possibilità di successo.
Cos’è la disruptive technology
Il termine “disruptive technology”, o “tecnologia dirompente”, si riferisce a una nuova tecnologia con costi e prestazioni inferiori misurati in base a criteri tradizionali, ma con prestazioni ausiliarie più elevate. Christensen ritiene che le tecnologie dirompenti possano fare il loro ingresso nelle nicchie dei mercati emergenti e contribuire ad espanderle, migliorando nel corso del tempo e arrivando alla fine ad “attaccare” i prodotti consolidati nei loro mercati tradizionali. Come si vede, dalle teorie di Christensen sono emerse parole chiave volte a identificare passaggi epocali nell’evoluzione dell’innovazione tra la fine del Novecento e gli inizi degli anni Duemila. Vediamole meglio.
Disruption e incumbent: proposte di traduzione
Come si può tradurre il termine disruption? Le parole italiane per renderne il significato sono molteplici: interruzione, perturbazione, disagio, disturbo, rottura, distruzione, sconvolgimento, disgregazione, disordine, turbativa, danni, scompiglio. Associato al termine “innovation”, vuole indicare un’innovazione in grado di perturbare e sconvolgere gli equilibri correnti delle cose.
Quanto al termine “incumbent”, significa letteralmente “in carica”, “detentore” o “operatore storico”. Nel linguaggio economico viene comunemente usato per indicare un’impresa, di solito di grandi dimensioni, che è monopolista di uno specifico mercato e tenta di bloccare l’ingresso di altre imprese, definite come “entranti”. Sono considerati suoi sinonimi impresa consolidata, impresa già affermata, impresa ex monopolista , impresa dominante. Nel settore delle telecomunicazioni, per esempio, le compagnie telefoniche tradizionali come Telecom Italia, France Telecom o British Telecom sono definite incumbent.
Disruptive innovation: perché è importante capire cos’è
Come ha spiegato Christensen “le disruptive innovations non sono innovazioni rivoluzionarie o ‘inizi ambiziosi’ che alterano drasticamente il modo in cui si fa il business, ma piuttosto consistono in prodotti e servizi semplici, accessibili e convenienti. Questi prodotti e servizi spesso appaiono modesti all’inizio, ma nel tempo hanno il potenziale per trasformare un’industria. (…) È importante capirlo, perché è uno strumento che le persone possono usare per prevedere il comportamento. Questo è il suo valore: non solo consente di prevedere ciò che un concorrente farà, ma anche ciò che la propria azienda potrebbe fare. Può aiutare ad evitare di scegliere la strategia sbagliata”.
Alle radici della disruptive innovation: la teoria di Schumpeter
Alla base del pensiero economico del Novecento sull’innovazione ci sono le teorie dell’austriaco Joseph Schumpeter, anch’egli economista ad Harvard. Nel 1934 lo studioso coniò una delle definizioni più riuscite di innovazione “Non è imprenditore […] chi compie operazioni economiche, intendendo lucrarne profitto, bensì colui che introduce atti innovativi”. Nel 1942 Schumpeter formulò la teoria della creative destruction, o distruzione creativa (in tedesco schöpferische Zerstörung), o distruzione creatrice, anche nota come burrasca di Schumpeter. Si tratta del “processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova”.
Scopo principale della distruzione creativa è offrire una sostituzione, migliore e spesso più economica rispetto a quella attuale, di un prodotto esistente. La sostituzione può presentarsi principalmente in due forme diverse: la prima è la versione migliorata di un prodotto esistente, la seconda inizia il suo percorso in una forma piuttosto primitiva, spesso intorno a un nucleo tecnologico di innovazione, per poi crescere e diventare di fatto sostitutiva.
In senso generale, la società è in un flusso costante di generazione di idee mirate ad ottenere un lavoro migliore. Per portare a termine meglio il lavoro attraverso le nuove idee, rinunciamo al modo prevalente di fare le cose, dando vita alla distruzione creativa, sosteneva Schumpter. Infatti la civiltà umana progredisce attraverso una serie di distruzioni creative. Ad esempio, gli esseri umani hanno sviluppato strumenti metallici per rinunciare a strumenti di pietra. Allo stesso modo, abbiamo optato per il software di elaborazione testi per scrivere lettere, causando conseguentemente la distruzione creativa delle macchine da scrivere.
Qual è la differenza tra creative destruction e disruptive innovation?
Nella teoria della disruptive innovation di Christensen l’innovatore si concentra intorno a un nuovo nucleo tecnologico che ha le potenzialità di diventare il sostituto di un determinato prodotto. Spesso l’innovazione emerge in forma primitiva, senza esercitare alcuna attrattiva per il gruppo esistente di clienti.
Ad esempio, le fotocamere digitali hanno causato la disruption delle fotocamere basate su pellicola. Ma negli anni ’80 i proprietari di telecamere cinematografiche non sentivano alcun desiderio di sostituirle con quelle digitali, perché all’epoca erano ancora poco avanzate. Chi ha comprato quelle telecamere? Spesso i bambini. Ma il nucleo tecnologico sottostante era suscettibile di una rapida progressione nel rendere le versioni successive delle fotocamere digitali migliori e più economiche. Nel corso del tempo, la qualità delle fotocamere digitali è diventata così buona che alla fine degli anni ’90 o nei primi anni 2000 sono diventate un valido sostituto delle telecamere cinematografiche. Questo ha causato disruption nell’industria dell’imaging basata su pellicola. Spesso questa forma di innovazione è definita innovazione radicale.
Dalla disruptive innovation alla Big Bang Disruption alla post disruption
Nel 1980 Michael Porter, anch’egli orbitante intorno ad Harvard come Schumpeter e Christensen – è tuttora docente alla Harvard Business School ed è uno dei maggiori esperti mondiali di teoria della strategia manageriale – elaborò alcune strategie generiche che descrivono il modo in cui un’azienda persegue un vantaggio competitivo nell’ambito di un mercato prescelto: “prodotti migliori e più costosi”, “prodotti meno costosi e sufficientemente buoni”, “prodotti che ti soddisfano così tanto che vuoi proprio quelli”.
Come si è visto, Con Clayton Christensen, nel 1995, è emerso che i prodotti più economici, se pure non erano così buoni, potevano avere un effetto disruptive sulle industrie. La disruption avveniva soprattutto dal punto di vista dei costi, che poi era la seconda dimensione della strategia generica di Michael Porter. La terza dimensione della strategia generica di Porter è la customer intimacy, che di fatto vuol dire stare vicini al cliente. Poi c’è stato il successo della “Strategia Oceano Blu: vincere senza competere”, testo pubblicato nel 2005 da W. Chan Kim e Renée Mauborgne. In questa opera è stato sottolineato come sia possibile portare la disruption nelle industry attraverso una terza via: arrivare veramente vicini a quello che il cliente vuole in un dato momento.
Un altro tassello importante nella teoria dell’innovazione è costituito da “Big Bang Disruption”, scritto da Paul Nunes e Flurry Downes, e pubblicato nella sua versione italiana nel 2014. Gli autori sostengono che la tecnologia consente di portare disruption se si è i migliori in tutte le tre dimensioni citate sopra. È cioè possibile essere migliori dei competitor, e al contempo più economici, e contestualmente più vicini al consumatore. L’esempio perfetto è quello di Waze, o Google Navigation: un’applicazione mobile gratuita di navigazione stradale per dispositivi mobili, basata sul concetto di crowdsourcing, sviluppata dalla startup israeliana Waze Mobile, poi acquisita da Google nel 2013.
Peraltro, alla fine della vita, lo stesso Christensen ha ammesso che la sua teoria della disruptive innovation necessitava di un’evoluzione in linea con il cambiamento dei tempi e dell’industria. “I meccanismi di disruption sono gli stessi di sempre – dice ancora nell’ultima intervista rilasciata – ma le recenti innovazioni del modello tecnologico e di business presentano opportunità e sfide uniche sia per gli incumbent sia per gli “entranti”. Per esempio, l’industria alberghiera è rimasta indisturbata per decenni, per poi essere colta completamente alla sprovvista da realtà come Airbnb. Internet, combinato con un accesso mobile quasi onnipresente, crea continuamente punti di ingresso attraverso i quali le aziende possono rivolgersi ai non consumatori con offerte più convenienti. Certamente il fatto che le piattaforme digitali possano emergere ed espandersi è qualcosa che non avevo concepito nelle prime fasi della nostra ricerca e merita ulteriori studi”.